Ennesimo giovane palestinese ucciso: Perché in Cisgiordania esistono i campi profughi?

Mohammad Abdel Hakim Nada, è stato ucciso dalle forze israeliane a Nablus. (Photo: via WAFA)

By Romana Rubeo

Le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un giovane palestinese durante gli scontri che sono seguiti a un’invasione militare del campo profughi di Al-Ain, a Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata. 

Il Ministero della Salute Palestinese ha annunciato in un breve comunicato che Mohammad Abdel Hakim Nada è stato raggiunto da un proiettile al torace sparato dai militari israeliani. Inutile la corsa in ospedale, dove il ventitreene è deceduto per le ferite riportate. 

L’invasione di Al-Ain

L’invasione militare operata nella giornata di mercoledì ad Al-Ain è simile ad altri raid dell’esercito militare negli scorsi mesi.

Da un punto di vista tattico, l’esercito israeliano chiude tutti gli accessi alla città, impedisce l’ingresso e l’uscita dei residenti e persino delle autoambulanze e dei veicoli medici. 

Nel caso di Al-Ain, le truppe di occupazione hanno messo sotto assedio un’abitazione e, secondo quanto riportato da fonti locali, hanno tratto in arresto uno dei leader della Resistenza palestinese, Nour al Basiouni. 

L’intera operazione è avvenuta sotto il fuoco ininterrotto dell’esercito israeliano che ha anche fatto irruzione in altre abitazioni, lasciando una scia di distruzione nel campo profughi. 

Perché ci sono campi profughi in Cirsgiordania?

Moltissimi palestinesi vivono ancora in aree che avrebbero dovuto fungere da rifugio temporaneo durante l’esproprio forzato delle loro terre e delle loro abitazioni, oltre 70 anni fa.

Nel 1948, infatti, la cosiddetta Nakba – catastrofe, in arabo – segna l’inizio di quell’esodo forzato che produrrà centinaia di migliaia di profughi palestinesi. Alcuni si rifugeranno nei Paesi limitrofi, altri si ricollocheranno all’interno del territorio palestinese, a Gaza e in Cisgiordania.

Ai sensi del diritto internazionale, i palestinesi avrebbero avuto diritto a ritornare nelle loro case e nelle loro terre. Dal punto di vista pratico, però, Israele ha sempre reso impossibile il ritorno. Nell’immediatezza, sparando a vista a chiunque cercasse di tornare alle sue terre o persino avvelenando i pozzi nei villaggi abbandonati, come confermato recentemente da alcuni documenti desecretati. 

Nel 1952, Israele redasse la cosiddetta Legge della Nazionalità, che “vietava alla popolazione araba esiliata di ritornare nelle sue terre in qualità di cittadini”. Ovviamente, la legge contravviene alle norme del diritto internazionale, ma di fatto criminalizza il sacrosanto diritto al ritorno dei palestinesi. 

Non solo. In seguito all’occupazione da parte di Israele del territorio restante della Palestina storica, nel 1967, si è prodotta una seconda ondata di rifugiati.

Attualmente, il numero di rifugiati palestinesi si stima intorno ai 7 milioni.

La risposta della comunità internazionale è stata più di tipo umanitario che legale. Anziché porre Israele dinanzi alle sue responsabilità, le Nazioni Unite hanno tamponato l’emergenza con la costituzione dell’UNRWA (L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente), che ha iniziato le sue operazioni nel 1949.

Cosa prevede il diritto internazionale

Come spiegato dal Centro risorse per la residenza e i diritti dei rifugiati BADIL, “Secondo la legge internazionale tutti gli individui hanno il diritto di tornare ai propri paesi d’origine. Il diritto al ritorno garantisce a tutti gli individui il diritto fondamentale di tornare alle proprie case – comunemente chiamate ‘case d’origine’- qualunque sia il momento in cui ne fossero stati allontanati in seguito a circostanze di cui non erano responsabili.”

Questa posizione è stata reiterata a più riprese dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e principalmente dalla Risoluzione 194, che sancisce il diritto al ritorno dei palestinesi di tornare nelle case lasciate durante la guerra e stabilisce anche il pagamento di un indennizzo per coloro i quali decidano di non tornare. 

Purtroppo, finora, il diritto al ritorno dei palestinesi, seppure riconosciuto a livello teorico, non è mai stato implementato a livello pratico e Israele non ha mai subito le conseguenze di questa posizione contraria al consenso internazionale. 

Le condizioni dei campi profughi palestinesi

Le condizioni di vita nei campi profughi palestinesi, in Cisgiordania come altrove, sono terribili. 

I campi sono sovrappopolati, mancano delle infrastrutture di base, spesso anche di strade e servizi sanitari. 

Uno studio della rivista medica britannica The Lancet, pubblicato nel 2012, mostra come le condizioni di salute nei campi siano estremamente precarie. 

Il tasso di disoccupazione è estremamente elevato e un’ampia percentuale di rifugiati palestinesi lavora a giornata, molto spesso in ambito edilizio. 

(The Palestine Chronicle)

- Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.

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