By Benay Blend
Durante la sua permanenza a Gaza, Corrie era rimasta insieme a una famiglia di Rafah, definendo le differenze “un portale virtuale nel lusso”.
Nel 1990-91, Corrie scriveva nel suo diario: “Immagino che le persone siano più felici quando non devono preoccuparsi. Cavolo, forse dovrei provare a non preoccuparmi, ogni tanto. Allora sarei inarrestabile, intoccabile. Che esplosione! Lo sarebbe?” (Let Me Stand Alone: The Journals of Rachel Corrie, 2008, pp. 12, 13).
Il 16 marzo 2003, un bulldozer D9 da 60 tonnellate, costruito da Caterpillar Inc., la investì mentre cercava di proteggere una casa dalla demolizione, a Rafah. Assassinata giovanissima, Corrie credeva che una vita ben vissuta significasse viverla per una causa.
Durante la sua permanenza a Gaza, Corrie era rimasta insieme a una famiglia di Rafah. Nelle sue lettere a casa, si riferiva alle differenze come a un “portale virtuale verso il lusso”, consapevole che avrebbe sempre visto la vita vissuta dalla sua famiglia ospitante attraverso una lente occidentale.
Poco prima della sua morte, Corrie ha vissuto molte esperienze scioccanti. Eppure, lei non era ciò che l’attivista/giornalista Ramzy Baroud chiamerebbe una “vittima intellettuale”, cioè un individuo che, nello spazio consentito da gruppi filopalestinesi, parla solo di una sorta di vittimismo palestinese, trasmettendo così narrazioni prive di un contesto storico appropriato.
“La lotta palestinese non può essere ridotta a una conversazione sulla povertà, o sugli orrori della guerra”, scrive Baroud, “ma deve essere ampliata per includere contesti politici più ampi che hanno portato alle tragedie attuali”.
Quando Corrie descriveva i posti di blocco che i palestinesi devono attraversare per andare al lavoro o all’università, quando richiamava l’attenzione sulle case demolite, inseriva tutte le informazioni nel contesto storico e geopolitico, includendo anche il carnefice.
Aveva anche ben compreso ciò che Baroud ha twittato molti anni dopo la sua morte: “Per i palestinesi, la gioia e il dolore vanno sempre di pari passo. La vita ci ha costretto a imparare a estrarre fugaci momenti di felicità dalle ferite più profonde. È da qui che proviene il nostro potere, ed è così che la nostra cultura sopravvive al flagello del colonialismo”.
Dopo aver ammesso in una lettera indirizzata a casa di essere “nel mezzo di un genocidio”, Corrie aveva scritto che sarebbe cambiata per sempre dopo aver assistito a un “grado di male” in precedenza ritenuto impossibile.
Credeva che i palestinesi rappresentassero un perfetto esempio su “come essere presenti sul lungo termine”. Attraverso “le risate, la generosità e il tempo trascorso in famiglia, mantengono la loro umanità nei momenti più difficili. Penso che la parola appropriata sia dignità”, concludeva Corrie, sottolineando la capacità di “restare umani” di fronte alla morte.
Tutto quel di cui Corrie è stata testimone nel 2003 – tutta la gioia e il dolore che ha visto a Gaza – rimane ancora oggi, mentre gli abitanti di Gaza stanno vivendo il Ramadan durante l’intensificarsi dell’assedio israeliano.
Nonostante il dolore per 31.184 morti ad oggi, 72.889 feriti e 7000 dispersi sotto le macerie, Mahmoud Ajjar scrive da Gaza che i negozianti stanno recuperando articoli invenduti dal Ramadan dell’anno scorso, mettendo in mostra decorazioni e lanterne, in modo da creare una parvenza di festa per i bambini.
Quest’anno non ci sono datteri, fichi secchi o spezie, le famiglie hanno a malapena da mangiare, ma “lo spirito dei palestinesi rimane imbattibile”, almeno per quanto riguarda il mantenimento dell’umanità che Corrie aveva notato molto tempo prima.
Corrie saprebbe comprendere la decisione del musicista Fares Anbar di rimanere a Gaza, nonostante le difficoltà e il dolore. “In nome di Dio, che popolo forte siamo”, ha detto Anbar. “Ci è stata donata la forza e la pazienza per sopportare un fardello che l’umanità non è in grado di sopportare. Ringrazio Dio per la benedizione di essere originario di Gaza”.
Corrie aveva visto che la bellezza della Palestina risaltava nel suo stesso dolore, e avrebbe sicuramente apprezzato la valutazione di Anbar riguardo gli abitanti di Gaza sotto assedio. “La gente di Gaza ama la vita, più di quanto l’occupazione tema la morte”, ha dichiarato, promettendo di dedicare la sua musica a ogni cittadino di Gaza, fino alla sua morte.
A Gaza hanno onorato Rachel Corrie con un torneo di calcio biennale, organizzato a suo nome. Sponsorizzato dalla Fondazione Rachel Corrie, l’evento onorava la solidarietà di Rachel nei confronti dei palestinesi, e la gentilezza ricevuta dalle famiglie che l’avevano accolta. Questo fino al 2023.
Adnan Abulsoud, organizzatore del torneo per diversi anni spiegava che “le squadre prendono il nome dalle città palestinesi occupate nel 1948 per ricordare il nostro diritto al ritorno”, rammentando in questo modo la Nakba, durante la quale molti villaggi furono sottoposti a pulizia etnica.
Corrie aveva viaggiato con l’International Solidarity Movement (ISM), aderendo all’impegno del gruppo nei confronti della non-violenza nelle azioni e convinzioni. Ma aveva capito che non poteva imporre questa posizione ad altri, in particolare agli oppressi, e cominciava ad avere anche lei dei dubbi al riguardo.
In una lettera, datata 27 febbraio 2003, Corrie aveva risposto alla tesi di sua madre, secondo la quale “la violenza palestinese non aiutava la situazione”. Dopo averle raccontato tutte le difficoltà economiche imposte da Israele, attraverso l’occupazione, aveva chiesto alla madre: “Cosa resta?”
“Penso che, in una situazione simile, la maggior parte delle persone si difenda come gli è possibile”, aveva concluso Corrie, ponendosi così al fianco degli oppressi. Sempre alla ricerca di molta accuratezza nelle sue valutazioni della vita a Rafah, scriveva sua madre che Gaza stava subendo un genocidio, perché tutti i mezzi di sopravvivenza erano stati tagliati via.
Nel suo breve periodo a Gaza, Rachel Corrie ha incarnato il significato di solidarietà con un gruppo di persone. Nella sua esplorazione del termine, lo storico anti-sionista israeliano Ilan Pappé, spiega che c’è sempre una “tensione tra impegno e risultati tangibili” (“The International Struggle on Behalf of Palestine”, Our Vision for Liberation: Engaged palestinese Leaders Speak Out, a cura di Ramzy Baroud, 2022, pp. 411-412).
Anche se non lo ha mai conosciuto, Corrie seguiva la soluzione di Pappé (p.412), concentrandosi poco sui risultati personali, e chiedendosi invece se avesse fatto abbastanza. “Voglio ancora ballare con Pat Benatar, avere fidanzati e realizzare fumetti per i miei colleghi”, aveva ammesso, “ma voglio anche che tutto questo finisca”. Durante il suo breve periodo a Gaza, Corrie aveva fatto il possibile per realizzare la speranza che comunicava in tutte le sue lettere.
“Imparare la vera natura della solidarietà è qualcosa che non si può apprendere in teoria o studiare in un’università”, continua Pappé. “Devi sperimentarlo attraverso il tuo stesso attivismo” (p. 412). Anche Rachel Corrie lo sapeva bene.
“Nessuna lettura, partecipazione a conferenze, visione di documentari e passaparola avrebbe potuto prepararmi alla realtà della situazione qui”, scriveva Corrie ai suoi genitori. Doveva vederlo da sola. Questo continuerà a educare e ispirare gli attivisti, per molti anni a venire.
Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui.
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