Dalla Du’a all’azione: una supplica per Gaza e per l’umanità

I palestinesi sfollati a Rafah prendono parte alla prima preghiera collettiva del Ramadan. (Foto: Mahmoud Ajjour, The Palestine Chronicle)

By Ramzy Baroud

Se Gaza non si è arresa, perché dovremmo farlo noi? Anche arrendersi è un privilegio. Gaza non lo possiede, e neppure noi dovremmo concedercelo.

“Tutto quello che possiamo fare per Gaza è semplicemente offrire le nostra Du’a”. Questa è un’affermazione ripetuta spesso da arabi e musulmani infuriati, che si sentono impotenti di fronte al genocidio israeliano contro Gaza.

Ma davvero sono possibili soltanto invocazioni e suppliche, mentre decine di migliaia di palestinesi nella Striscia di Gaza vengono uccisi e feriti dalla macchina da guerra israeliana? No. C’è molto altro che possiamo fare e, in effetti, diverse persone nel mondo sono in azione.

Nelle tradizioni degli Hadith, i detti attribuiti al Profeta Maometto, il riferimento più citato riguardo la necessità di agire, collettivamente o individualmente, è questo: “Chi di voi vede il male, lo cambi con le sue mani. Se non può farlo con le mani, allora con la parola. Se non può farlo con la parola, allora con il cuore, che è il livello più debole di fede”.

Una Du’a è un’invocazione, comunicata con il cuore; è la conversazione di un musulmano con Dio. Può essere verbalizzata oppure no. Nelle preghiere di gruppo, soprattutto durante i sermoni del venerdì, o durante il mese sacro del Ramadan, le Du’as possono essere eseguite collettivamente.

La natura di una Du’a collettiva evidenzia le priorità di ogni dato gruppo, comunità o nazione musulmana. Gaza, la Palestina, e la Moschea di Al-Aqsa sono tra alcuni dei principali temi per i quali i musulmani implorano l’aiuto di Dio.

“Oh Allah, per favore libera la moschea di Al-Aqsa”, “Oh, Misericordioso, stai accanto ai bambini di Gaza”, “Oh Onnipotente, libera i palestinesi dall’ingiustizia” sono alcune suppliche di un flusso quasi infinito di Du’a che vengono pronunciate dalla Mecca a Medina, da Gerusalemme a Kuala Lumpur, in ogni moschea e in ogni casa musulmana, in tutto il mondo.

La Du’a è l’affermazione di una relazione tra l’uomo e Dio, poiché nulla accade senza il permesso di Dio, e una persona, non importa quanto povera, assediata e indebolita, può trascendere tutte le relazioni terrene per parlare direttamente alla più alta autorità.

“Il tuo Signore ha proclamato: ‘Invocami, ti risponderò’”, dice Allah nella Sura Ghafir, versetto 60.

Questo non significa necessariamente che una Du’a sia l’unica risorsa, anzi va di pari passo con l’azione. Non sostituisce l’azione, ma la rafforza. Le Du’a collettive sono una dichiarazione comune, nella quale tutti i musulmani sono guidati da priorità simili, come pace, giustizia, uguaglianza, misericordia, gentilezza e altro.

Molti musulmani si sentono incapaci di influenzare un possibile cambiamento riguardo all’orribile destino di Gaza, sia su piccola che larga scala, e da qui nasce l’idea diffusa che “tutto ciò che possiamo fare è offrire Du’a”.

Ho visitato il Sud Africa diverse volte, in passato. Ogni volta ho imparato molto più di quanto sperassi. Ho imparato che il potere popolare è molto più efficace, sul lungo periodo, dei suoi poteri opposti, come la violenza statale. Ho imparato che nessuna legge, specialmente quelle che mirano a imporre l’apartheid razzista, può opporsi al nostro innato rifiuto alla disuguaglianza sociale, e ad altri mali. Ho anche imparato che, quando le persone si sollevano, nulla le può ostacolare.

Quest’ultima massima è risultata vera nel caso del Sudafrica durante la lotta contro l’apartheid, così come lo è oggi in Palestina, in particolare a Gaza. Di questo scrisse cento anni fa il famoso poeta tunisino Abu Al-Qasim al-Shabi.

“Se un giorno il popolo aspirasse davvero alla vita / allora il destino dovrebbe rispondere / la notte dovrebbe risplendere / e le catene dovrebbero spezzarsi”, aveva scritto poco prima di morire, a soli 25 anni.

Le sue parole, potenti, includevano anche un minaccioso avvertimento su possibilità terribili a venire: “Coloro che non sono abbracciati al desiderio della vita / evaporeranno nell’aria, e svaniranno”.

Il Sudafrica non ha fatto questa scelta, e nemmeno Gaza. Ogni tentativo di schiacciare questi due grandi popoli ha sempre continuato a fallire. Sono rimasti, hanno perseverato, hanno curato le loro ferite, e hanno reagito.

Ho sempre ritenuto che il Sudafrica avrebbe rivestito un ruolo centrale nella solidarietà internazionale con la Palestina. Ma, francamente, non mi aspettavo che la nazione africana diventasse così intrinsecamente collegata, senza precedenti, al punto di esporsi accusando Israele come responsabile dei crimini in Palestina.

La pressione di Pretoria, per chiedere conto a Israele, e ai suoi criminali di guerra, delle loro responsabilità davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e alla Corte Penale Internazionale (ICC), continua senza sosta.

Non è stato il potere o valore militare, economico, politico, a rendere il Sudafrica un fattore decisivo nella lotta palestinese per la giustizia. È stata la pura volontà di una nazione e, successivamente, di un governo, che hanno tradotto in azioni significative il desiderio di realizzare un sistema internazionale più equo, giusto e governato dalla legge.

Il Sudafrica avrebbe potuto semplicemente ricorrere all’autocommiserazione, evidenziando una sua insignificanza di fronte a governi più potenti come gli Stati Uniti e l’Occidente, i quali continuano a sostenere Israele, fornendogli tutte le armi necessarie per proseguire il genocidio.

Anche loro avrebbero potuto ricorrere a preghiere, invocazioni e suppliche come “l’unica cosa che si può fare”. Invece no. Hanno usato la loro influenza diplomatica e l’autorità morale, per articolare uno dei più potenti casi a favore della libertà palestinese e contro la brutalità israeliana, mai discussi davanti a un’istituzione legale internazionale.

È comprensibile che molti si sentano impotenti, soprattutto quando si comprende l’enormità del crimine in atto a Gaza. Israele potrebbe non aver utilizzato armi di distruzione di massa nella Striscia, ma ha sicuramente utilizzato tutte le armi fornite dall’Occidente per infliggere comunque una distruzione di massa.

Ma se Gaza non si è arresa, perché dovremmo farlo noi? Anche arrendersi è un privilegio. Gaza non ha questo privilegio, e noi non dovremmo concedercelo. Gaza sta combattendo per la sua stessa sopravvivenza, anche noi dobbiamo lottare per lo stesso scopo.

Fai una Du’a per Gaza. Che sia il primo gesto mentre intraprendi la tua ricerca per un mondo giusto. E fai un’altra Du’a per Gaza, per implorare Dio di ricompensare le tue azioni altruistiche, mosse da buone intenzioni. Se ti assale la disperazione, fai comunque una Du’a, scoprirai il potere di fare la differenza, e scoprirai che è sempre stato a portata di mano.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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