Un uomo senza strategia: Come Netanyahu sta provocando una nuova Intifada in Cisgiordania

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. (Photo: Russia Presidential Press and Information Office, via Wikimedia Commons)

By Ramzy Baroud

Dopo aver firmato un decreto militare il 18 maggio che consente ai coloni ebrei israeliani illegali di reclamare l’insediamento abbandonato di Homesh nella Cisgiordania settentrionale, il governo israeliano ha informato l’amministrazione statunitense Biden che non avrebbe trasformato l’area in un nuovo insediamento. Quest’ultima rivelazione è stata riportata da Axios il 23 maggio.

Questa contraddizione non sorprende. Mentre i ministri di estrema destra israeliani Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich sanno esattamente cosa vogliono, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu sta cercando di compiere un atto di equilibrismo politico impossibile: da una parte, vuole esaudire tutti i desideri di Ben-Gvir e Smotrich, ma senza allontanarsi dall’agenda politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e senza creare le circostanze che potrebbero definitivamente rovesciare l’Autorità Palestinese.

Inoltre, Netanyahu vuole normalizzare le relazioni con i governi arabi, pur continuando a colonizzare la Palestina, espandere gli insediamenti e prendere il controllo completo della Moschea di Al-Aqsa e di altri luoghi sacri musulmani e cristiani palestinesi.

Ancora peggio, vuole, su insistenza di Ben-Gvir e del suo elettorato estremista e religioso, ripopolare Homesh e creare nuovi avamposti, evitando una ribellione armata totale in Cisgiordania.

Allo stesso tempo, Netanyahu vuole mantenere buoni rapporti con arabi e musulmani, mentre costantemente umilia, opprime e uccide arabi e musulmani.

Un’impresa del genere è praticamente impossibile.

Netanyahu non è un politico alle prime armi che non riesce a tenere sotto controllo tutte le anime del suo esecutivo. È un ideologo di destra che usa l’ideologia sionista e la religione ebraica come fondamento della sua agenda politica. Altrove, e specialmente nel mondo occidentale, Netanyahu sarebbe percepito come un politico di estrema destra.

Uno dei motivi per cui l’Occidente esita a etichettare Netanyahu come tale è che, se ci fosse un generale consenso sul fatto che rappresenta un affronto alla democrazia, sarebbe difficile instaurare con lui un confronto diplomatico. Mentre il governo italiano di estrema destra di Giorgia Meloni ha ospitato Netanyahu a marzo, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden deve ancora incontrare di persona il leader israeliano, mesi dopo che la formazione del suo governo di estrema destra.

Netanyahu è consapevole di tutte queste difficoltà e sa bene che la reputazione del suo Paese, anche tra gli alleati, è a brandelli. Tuttavia, è determinato a perseguire i suoi interessi.

Ci sono volute cinque elezioni in quattro anni perché Netanyahu riuscisse a mettere insieme un governo relativamente stabile. Andare a nuove elezioni sarebbe rischioso, poiché il capo dell’opposizione, Yair Lapid, potrebbe ottenere la maggioranza dei seggi.

Ma accontentare le richieste di Ben-Gvir e altri sta trasformando Israele in un Paese governato da fanatici populisti e nazionalisti determinati a scatenare una guerra di religione. A giudicare dalle circostanze attuali, potrebbero riuscirci.

La verità è che né Ben-Gvir né Smotrich hanno il buon senso o l’esperienza politica di Netanyahu. Anzi, si muovono in modo alquanto distruttivo. La loro intenzione è seminare il caos e usarlo per promuovere la loro agenda:più insediamenti illegali, più pulizia etnica dei palestinesi e, in fine, una guerra religiosa.

A causa di queste pressioni, Netanyahu, con il suo proprio programma espansionista, non è in grado di seguire un piano definito su come annettere completamente ampie parti della Cisgiordania e rendere i palestinesi permanentemente apolidi. Non può sviluppare e mantenere una strategia coerente perché i suoi alleati hanno una strategia loro. E, a differenza di Netanyahu, a loro importa poco di stizzire Washington, Bruxelles, Il Cairo o Amman.

Sicuramente, questo risulta frustrante per Netanyahu, che, nei suoi 15 anni da primo ministro, ha sviluppato una strategia efficace che si fonda su diversi equilibri. Mentre lentamente colonizzava la Cisgiordania e manteneva un assedio su Gaza, scatenando occasionalmente delle guerre, usava un finto linguaggio della pace e della riconciliazione a livello internazionale. Sebbene in passato abbia avuto problemi con Washington, Netanyahu ha spesso prevalso, con il sostegno del Congresso degli Stati Uniti. E nonostante abbia provocato in numerose occasioni Paesi arabi, musulmani e africani, è comunque riuscito a normalizzare i rapporti con molti di loro.

La sua è stata una strategia vincente, di cui si è vantato spudoratamente durante ogni campagna elettorale. Ma sembra che la festa sia finalmente finita.

La nuova agenda politica di Netanyahu è ora motivata da un unico obiettivo: la sua stessa sopravvivenza. O meglio, quella sua e  dei suoi familiari, molti dei quali sono accusati di corruzione e favoritismo. Se l’attuale governo israeliano dovesse crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni e del suo estremismo, sarebbe quasi impossibile per Netanyahu tornare al potere. Se i partiti di estrema destra abbandonassero il Likud di Netanyahu, Israele sprofonderebbe ancora di più sotto il peso delle sommosse sociali e di una interminabile crisi politica.

Per ora, Netanyahu dovrà mantenere la rotta: quella incentrata sulle guerre senza provocazioni, sulle incursioni fatali in Cisgiordania, sugli attacchi ai luoghi sacri, sul ripopolamento o sulla creazione di nuovi insediamenti illegali, sulla violenza quotidiana dei coloni contro i palestinesi e così via, a prescindere delle conseguenze di queste azioni.

Una di queste conseguenze è l’allargamento del fronte della ribellione armata al resto della Cisgiordania. Da qualche anno, il fenomeno della lotta armata sta crescendo in tutta la Cisgiordania. In aree come Nablus e Jenin, i gruppi di Resistenza armata sono cresciuti al punto che l’Autorità Palestinese ha ormai un controllo limitato su queste zone.

Questo fenomeno è anche il risultato della mancanza di una vera classe dirigente palestinese, in grado di investire di più nella rappresentanza e nella tutela dei palestinesi dalla violenza israeliana piuttosto che nel “coordinamento della sicurezza” con l’esercito israeliano.

Ora che i seguaci di Ben-Gvir e Smotrich stanno scatenando il caos in Cisgiordania in assenza di qualsiasi forma di protezione per i civili palestinesi, i combattenti palestinesi stanno assumendo il ruolo di protettori. La Fossa dei Leoni è una manifestazione diretta di questa realtà.

Per i palestinesi, la Resistenza armata è una risposta naturale all’Occupazione militare, all’Apartheid e alla violenza dei coloni. Non è una strategia politica di per sé. Per Israele, invece, la violenza è una strategia.

Per Netanyahu, le frequenti incursioni nelle città palestinesi e nei campi profughi si traducono in consenso politico che gli permette di tenere i suoi alleati estremisti. Ma questa è una logica miope. Se la violenza incontrollata di Israele continua, la Cisgiordania potrebbe presto trovarsi coinvolta in una rivolta armata a tutto campo contro Israele e in aperta ribellione contro l’Autorità Palestinese.

A quel punto, nessun gioco di prestigio o atto di bilanciamento da parte di Netanyahu potrebbe controllarne gli esiti.

(Leggi l’originale inglese qui)

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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