USA e Israele: Il ‘sacro legame’ si sta finalmente spezzando?

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden (S) con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. (Photo: US Embassy Tel Aviv, via Wikimedia Commons)

By Ramzy Baroud

La nuova generazione di politici Democratici vede Israele, o almeno la destra israeliana, come un’estensione del Partito Repubblicano, da qui la crescente ostilità verso Israele.

Sebbene gran parte dell’autoproclamata “indipendenza” di Israele sia il risultato del sostegno incondizionato degli Stati Uniti, gli israeliani difficilmente lo riconoscono.

Il Presidente israeliano Isaac Herzog non ha aggiunto nulla di grande valore nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti il ​​19 luglio.

Il suo era il linguaggio tipico. Ha parlato di un “legame sacro”, ha promosso l’esperienza condivisa tra le due nazioni come “unica per portata e qualità” e ha celebrato i grandi “valori comuni che attraversano le generazioni”.

Ma questo linguaggio teatrale aveva lo scopo di nascondere una verità scomoda: il rapporto tra Israele e Stati Uniti sta cambiando a un livello sostanziale.

Due giorni prima del discorso di Herzog, il capo dell’opposizione israeliana ed ex Primo Ministro, Yair Lapid, ha dichiarato che “gli Stati Uniti non sono più il più stretto alleato di Israele”.

Le parole di Lapid erano un insieme di fatti e opportunismo politico.

Lapid e altri nel suo campo sono ansiosi di incolpare il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per il declino delle relazioni tra i due Paesi; o per usare un linguaggio più pertinente, per indebolire il “sacro”, “legame indissolubile”, che da molti anni unisce i due Paesi.

La valutazione di Lapid, tuttavia, è imprecisa. Se è vero che Netanyahu ha avuto un ruolo nell’ampliare il distacco tra Tel Aviv e Washington, è altrettanto vero che quel distacco era alimentato anche da altre dinamiche: da una combinazione di cambiamenti e tendenze politiche, geopolitiche e demografiche.

Ma quale valutazione è più vicina alla verità? L’affermazione di Herzog di un “vincolo sacro” o l’affermazione più drammatica di Lapid che la considera un’alleanza ormai vacillante?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo guardare oltre le dichiarazioni pubbliche, spesso esagerate, fatte dai politici di entrambi i Paesi e in particolare dai leader dei due potenti partiti statunitensi, i Repubblicani e i Democratici.

In termini di linguaggio, i leader di entrambe le parti insistono sul fatto che la devozione di Washington per Israele va oltre la politica e che la sicurezza di Israele è al di sopra della polarizzazione politica americana.

In un discorso alla Knesset (Parlamento) israeliana il 1° maggio, il presidente della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy ha seguito il tipico copione americano su Israele. Anche lui ha parlato di “legame indissolubile” e “sostegno bipartisan degli Stati Uniti” e, prevedibilmente, è stato accolto con clamorosi applausi.

Anche Biden è un convinto sostenitore di Israele. La sua frase spesso ripetuta: “Non serve essere ebrei per essere un sionisti”, è ora un mantra tra gli alleati americani di Israele.

Tuttavia, mentre il legame dei Repubblicani con Israele rimane forte, quello dei Democratici non lo è; così debole, infatti, che nel giugno 2022, un sondaggio del Centro di Ricerca Pew ha rilevato che “la maggioranza dei Democratici e coloro che sono inclini a dare il voto ai Democratici esprimono un’opinione più favorevole nei confronti dei palestinesi che degli israeliani”.

Quindi, l’idea che Israele sia una causa comune tra i principali partiti politici americani è semplicemente falsa. Non c’è da stupirsi che Biden abbia ritardato di sette mesi l’invito di Netanyahu alla Casa Bianca dopo la formazione dell’ultima coalizione di governo israeliana.

Affollata di politici di estrema destra, la coalizione di Netanyahu è semplicemente una responsabilità per qualsiasi sistema democratico in qualsiasi parte del mondo.

Molti israeliani sono d’accordo, credendo in tutto o in parte che il loro governo non sia più democratico, a causa del crescente controllo di Netanyahu sulle istituzioni un tempo indipendenti del Paese.

In tutto questo, Biden sta lottando per trovare l’equilibrio.

“Sono molto preoccupato”, ha detto Biden ai giornalisti lo scorso maggio. “Israele non può continuare su questa strada, e l’ho chiarito”.

Questo è lo stesso Biden che ha descritto come “assurda” la proposta dell’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Bernie Sanders, di trattenere i fondi destinati a Israele a causa del suo maltrattamento dei palestinesi.

Washington dà a Israele almeno 3,8 miliardi di dollari (3,5 miliardi di euro) all’anno in aiuti militari. Se la tendenza anti-israeliana tra i Democratici continua, le richieste di trattenere i fondi potrebbero, nel prossimo anno, non apparire più così “assurde”.

Sotto l’intensa pressione della lobby filo-israeliana, il 17 luglio Biden ha finalmente invitato Netanyahu alla Casa Bianca. La visita, tuttavia, considerando l’intensificarsi delle proteste anti-Netanyahu, difficilmente riallaccerà i rapporti tra Washington e Tel Aviv.

Infatti, anche se le proteste si placassero, le relazioni tra Stati Uniti e Israele non saranno le stesse.

Per oltre un decennio, gli Stati Uniti si sono lentamente, ma inequivocabilmente, allontanati dal Medio Oriente, in parte a causa degli esiti disastrosi dell’invasione dell’Iraq, e in parte a causa del crescente potere della Cina nella regione dell’Asia-Pacifico.

Il ritiro degli Stati Uniti ha fatto suonare un campanello d’allarme in Israele, con i politici israeliani e gli intellettuali tradizionali che sollecitano l’autosufficienza. Ciò ha portato a un’inesorabile ricerca israeliana di nuovi alleati, soprattutto nel Sud del Mondo.

Il successo, dal punto di vista di Netanyahu, di questa campagna ha aiutato Israele a liberarsi in qualche modo da qualsiasi impegno nei confronti dell’agenda statunitense in Medio Oriente, compreso l’impegno nel “processo di pace” guidato dagli Stati Uniti con la dirigenza palestinese.

Nonostante l’insistenza di Biden, durante il suo viaggio in Medio Oriente nel luglio 2022, sulla necessità di un processo di pace “rinvigorito”, Tel Aviv non ha sostenuto né sembrava nemmeno accorgersi della nuova ricerca di Washington.

A quel tempo, Netanyahu non era nemmeno Primo Ministro, poiché Israele era governato da una coalizione di governo guidata dallo stesso Lapid.

Mentre Netanyahu viene opportunamente incolpato per l’indebolimento delle relazioni, il disimpegno da Washington è stato, in realtà, principalmente una decisione collettiva e un processo prolungato.

Quando, il 10 luglio, il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato che “il Presidente Biden deve interiorizzare che Israele non è più un’altra stella nella bandiera americana”, stava semplicemente ribadendo una linea popolare usata da altri prima di lui.

Anche Netanyahu ha fatto ricorso a un linguaggio simile quando, a marzo, ha dichiarato all’amministrazione statunitense che Israele è “una democrazia forte, orgogliosa e indipendente”.

Sebbene gran parte dell’autoproclamata “indipendenza” di Israele sia il risultato del sostegno incondizionato degli Stati Uniti, gli israeliani difficilmente riconoscono questo fatto.

Il Direttorato del Ministero della Cooperazione Internazionale della Difesa Israeliano (SIBAT) riferisce costantemente sulla crescita delle esportazioni militari di Tel Aviv verso il resto del mondo. Queste esportazioni hanno raggiunto i 12,5 miliardi di dollari (11,3 miliardi di euro) l’anno scorso. La maggior parte di questa tecnologia è stata sviluppata dagli Stati Uniti o in collaborazione con gli Stati Uniti e gran parte della ricerca è stata finanziata dai contribuenti americani.

Tuttavia, questo senso di “indipendenza” ha dato a Netanyahu la fiducia necessaria per abbandonare il Partito Democratico a favore dei più accomodanti Repubblicani.

Da parte loro, la nuova generazione di politici Democratici vede Israele, o almeno la destra israeliana, come un’estensione del Partito Repubblicano, da qui la crescente ostilità verso Israele.

In ultima analisi, sia Herzog che Lapid hanno in parte torto: il “vincolo sacro” è meno sacro che mai e, che gli Stati Uniti siano o meno l’alleato più stretto di Israele, fa poca differenza, dal momento che è improbabile che Israele trovi un’alternativa al supporto cieco di Washington subito o in tempi brevi.

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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