La politica di punizione collettiva contro le famiglie dei “ricercati” viene praticata da tempo da Israele, ma si è intensificata in concomitanza con l’aggressione in corso alla Striscia di Gaza.
Dunia Dawoud, 52 anni, è ancora in lutto per il figlio Tariq, 17 anni, ucciso dall’esercito di occupazione israeliano alcuni giorni fa vicino a Qalqilya, nel nord della Cisgiordania.
Tariq era stato rilasciato solo lo scorso novembre dalle autorità di occupazione israeliane, insieme ad altri giovani palestinesi, in seguito a un accordo di scambio con alcuni cittadini israeliani denuti dal movimento di resistenza Hamas nella Striscia di Gaza.
Dopo il suo rilascio, Israele ha affermato che Tariq era un “ricercato”, per essersi presumibilmente unito a gruppi armati nei campi profughi situati nel nord della Cisgiordania.
Durante questo periodo, Israele è stato costantemente sulle tracce di Tariq, perseguitandolo senza tregua. Non soddisfatto, l’esercito israeliano ha anche sottoposto la sua famiglia a ogni forma di misura repressiva, tra cui l’arresto dei genitori e dei fratelli, oltre a decine di irruzioni nella sua casa.
La politica di punizione collettiva contro le famiglie dei “ricercati” viene praticata da tempo da Israele, ma si è intensificata in concomitanza con l’aggressione in corso sulla Striscia di Gaza.
Questa politica ha raggiunto un punto tale che si arrivano a punire i membri delle famiglie dei “ricercati” o dei detenuti nel tentativo di raggiungere quella che viene definita “equazione di deterrenza”.
Il fatto che questa politica non abbia influito sullo sviluppo della resistenza armata in Cisgiordania non ha dissuaso Israele dal perseguirla.
Umiliare una famiglia
Durante il periodo in cui l’esercito israeliano era alla ricerca di suo figlio, la madre di Tariq è stata arrestata 14 volte, per fare pressione sul ragazzo affinché si arrendesse.
Ad ogni arresto, Dunia è stata sottoposta a violenze verbali, spintoni, costrizioni, bendaggi, e costretta a rimanere per ore al freddo o al caldo estremo, prima di essere rilasciata dopo alcuni giorni e poi nuovamente arrestata.
“Una volta mi hanno costretto a togliermi tutti i vestiti, poi mi hanno perquisito, legato e bendato in una stanza di ferro portatile. Quando mi hanno tolto gli occhi, mi sono ritrovata in una stanza con sette uomini prigionieri”, ha raccontato.
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Anche il padre di Tariq è stato arrestato più di dieci volte, nonostante soffra di diabete e di problemi ai nervi delle mani. È stato comunque ammanettato finché non ha iniziato a urlare.
Anche Maher e Khaled, i fratelli di Tariq, sono stati arrestati e maltrattati. In un’occasione, Maher è stato picchiato duramente mentre era legato e lasciato nudo all’aperto. I soldati israeliani gli hanno impedito di andare in bagno e lo hanno costretto a urinarsi addosso mentre ridevano e lo filmavano.
“Inoltre, mio genero è stato arrestato, picchiato e insultato, e le case degli zii di Tariq sono state violate e vandalizzate”, ha spiegato Dunia.
“Continuavano a dirmi di chiedergli di arrendersi, dicevano cose come ‘vai e portalo a casa’, e anche se ho detto loro che non sapevo dove si trovasse, hanno continuato a insultarmi e ad arrestarmi perché il loro obiettivo era quello di spaventare me e la sua famiglia”, ha continuato Dunia.
Pratiche barbariche
Un’altra forma di punizione collettiva impiegata dall’esercito di occupazione in Cisgiordania è il bombardamento delle case dei palestinesi che sarebbero coinvolti in operazioni militari.
Nelle ultime due settimane, l’esercito israeliano ha fatto esplodere le case di tre prigionieri che sosteneva fossero coinvolti in un attacco a fuoco vicino a Ramallah, che ha causato la morte di un palestinese.
Ahmed al-Barghouti, fratello del prigioniero Ayser, ha dichiarato ai media che la sua casa a Ramallah è stata recentemente bombardata come forma di punizione.
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“L’esercito israeliano ritiene che questo possa generare frustrazione o costituire un danno psicologico, o anche che il prigioniero perda il sostegno sociale di cui gode. Vogliono che questo sia una lezione per gli altri palestinesi, affinché non seguano le sue orme”, ha dichiarato Ahmed a The Palestine Chronicle.
Secondo al-Barghouti, queste misure sono “solo pratiche barbariche” volte alla vendetta, ma non colpiscono veramente i palestinesi.
Imad Abu Hawash, ricercatore del Centro palestinese per i diritti umani, ha dichiarato al Palestine Chronicle che queste misure non sono nuove e fanno parte della legge di emergenza britannica emanata nel 1945.
La legge prende di mira soprattutto coloro che sono accusati da Israele di aver condotto operazioni di resistenza ed è stata applicata ai palestinesi che vivono in Cisgiordania, Gerusalemme e Palestina nel 1948.
La pratica viene attuata attraverso l’arresto dei parenti, il divieto di viaggiare e il bombardamento o la chiusura delle loro case.
Negli ultimi anni Israele ha demolito o fatto esplodere centinaia di abitazioni come parte di questa politica.
Abu Hawash ha affermato che la maggior parte dei bombardamenti e delle demolizioni di case sono effettuati per ordine militare, senza un ordine giudiziario israeliano.
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“L’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra prevede la protezione dei civili in caso di guerra e proibisce l’attuazione di punizioni collettive e la punizione di qualsiasi persona protetta per un crimine che non ha commesso, ma ovviamente Israele non si cura di questa convenzione”, ha concluso Abu Hawash.
La punizione collettiva è uno strumento crudele adottato da Israele per esercitare pressione sulle famiglie dei “ricercati”.
Tuttavia, ciò che Israele sembra aver ignorato fin dall’inizio della sua occupazione della Palestina è che queste misure non fanno altro che aumentare la determinazione dei palestinesi a continuare la loro lotta per la liberazione.
(The Palestine Chronicle)
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