Cancellazione o Sumud: Come la Nakba ha ridefinito l’identità collettiva dei palestinesi

Un'anziana donna palestinese, sopravvissuta alla Nabka, nella sua umile dimora nel campo profughi di Shati a Gaza. (Photo: Mahmoud Ajjour, The Palestine Chronicle)

By Ramzy Baroud

Il 15 maggio 2023, la Nakba palestinese compirà 75 anni.

In questa data, i palestinesi di tutto il mondo commemoreranno la tragica “Catastrofe”, ovvero l’esodo forzato di quasi 800.000 profughi palestinesi e la pulizia etnica degli abitanti di quasi 500 città e villaggi nella Palestina storica.

Lo spopolamento della Palestina andò avanti per mesi, anzi anni, dopo la presunta conclusione della Nakba. Ma la verità è che la Nakba non è mai finita. Ancora oggi, le comunità palestinesi a Gerusalemme Est, nelle colline a sud di Hebron, nel deserto del Naqab e altrove subiscono ancora le conseguenze della volontà israeliana di stabilire una supremazia demografica. E, naturalmente, milioni di rifugiati rimangono apolidi, spogliati ​​dei loro diritti politici e umani fondamentali.

In un intervento alla Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo nel 2001, l’intellettuale palestinese Hanan Ashrawi ha giustamente descritto il popolo palestinese come “una nazione in schiavitù, tenuta in ostaggio dauna Nakba ancora in corso”. Ashrwai è poi scesa nel dettaglio, descrivendo questa “Nakba in corso” come “l’espressione più complessa e invasiva del colonialismo, dell’Apartheid, del razzismo e della vittimizzazione”. In virtù di tutto questo, non dobbiamo pensare alla Nakba solo come un evento isolato nel tempo e nello spazio.

Sebbene il massiccio sfollamento della popolazione palestinese tra il 1947 e il 1948 sia stato un risultato diretto della campagna di pulizia etnica sionista, come ideata nel “Piano Dalet”, quell’evento ha ufficialmente inaugurato una Nakba più estesa, che perdura ancora oggi. Il Piano Dalet, o Piano D, è stato avviato dalla classe dirigente sionista e portato avanti dalle milizie sioniste con l’obiettivo di depopolare la Palestina dalla maggior parte dei suoi abitanti nativi. Ha aperto la strada a decenni di violenze e sofferenze, il peso delle quali è stato sopportato dal popolo palestinese.

Infatti, l’attuale occupazione israeliana e il radicato regime di Apartheid in Palestina non sono semplicemente gli esiti previsti o non previsti della Nakba, quanto le manifestazioni dirette di una Nakba che non si è mai veramente conclusa.

È universalmente riconosciuto che i profughi palestinesi, indipendentemente dagli eventi specifici che hanno innescato il loro sfollamento forzato, abbiano diritti “inalienabili” ai sensi del diritto internazionale, anche se purtroppo mai concretizzati. La Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rende giuridicamente impossibile per Israele violare questi diritti. Questa Risoluzione, datata 1948, afferma che “che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere consentito di farlo al più presto possibile”. Questo deve essere compiuto, secondo l’ONU, dai “governi o dalle autorità competenti”.

Poiché Israele è il governo competente, Tel Aviv ha fatto di tutto per mettersi al riparo da ogni colpa o responsabilità. I rapporti “secretati” recuperati dai ricercatori israeliani e resi pubblici dal quotidiano israeliano Haaretz nel 2013, ne includono uno noto con il nome di GL-18/17028. Questo documento dimostra come il primo Primo Ministro israeliano, David Ben-Gurion, abbia tentato di “riscrivere la storia” subito dopo il completamento della prima e più importante fase della pulizia etnica della Palestina. Per raggiungere il suo obiettivo, Ben-Gurion ha scelto la più ignobile di tutte le strategie: addossare la colpa della presunta fuga dei palestinesi alle vittime stesse.

Ma perché i sionisti vittoriosi dovrebbero preoccuparsi di questioni apparentemente banali come la narrazione degli eventi? L’articolo di Haaretz sottolineava: “Proprio come il sionismo aveva forgiato una nuova narrativa per il popolo ebraico in pochi decenni, Ben-Gurion capì che anche l’altra nazione che aveva risieduto nel Paese prima dell’avvento del sionismo avrebbe tentato di elaborare una narrazione propria.” Questa “altra nazione” è, ovviamente, il popolo palestinese.

Il punto cruciale della narrazione sionista sulla pulizia etnica della Palestina era, quindi, fondato sulla ripetuta affermazione che i palestinesi se ne fossero andati “per scelta”, anche se stava diventando chiaro agli stessi sionisti che “solo in una manciata di casi gli abitanti dei villaggi partirono in seguito alle direttive disposte dalle loro guide locali o dai Mukhtar”, come ha riferito Haaretz.

Tuttavia, anche in questi pochi casi isolati, cercare rifugio altrove in tempo di guerra non è un reato e non dovrebbe costare ai profughi i loro diritti inalienabili. Se tale assurda logica sionista fosse il criterio che regola ill diritto internazionale, allora i profughi provenienti da Siria, Ucraina, Libia, Sudan e tutte le altre zone di guerra avrebbero perso i loro diritti sulla proprietà e sulla cittadinanza nelle rispettive terre d’origine.

Ma la logica sionista non intendeva solo sfidare i diritti giuridici o politici del popolo palestinese. Era parte integrante di un processo più ampio noto agli intellettuali palestinesi come cancellazione: la distruzione sistematica della Palestina, inclusa la sua storia, cultura, lingua, memoria e, naturalmente, il suo popolo. Questo processo si rifletteva nei primi proclami sionisti, anche decenni prima che la Palestina fosse svuotata dei suoi abitanti, con la patria del popolo palestinese maliziosamente percepita come una “terra senza popolo”.

La negazione dell’esistenza stessa dei palestinesi è stata espressa numerose volte nella narrativa sionista e continua ad essere utilizzata ancora oggi.

75 anni di Nakba, uniti allla negazione dell’esistenza di questo enorme crimine da parte di Israele e dei suoi sostenitori, richiedono una comprensione molto più profonda di quanto è accaduto, e continua ad accadere, al popolo palestinese.

I palestinesi devono insistere sul fatto che la Nakba non è un singolo punto politico da discutere con Israele o contrattare da coloro che affermano di rappresentare il popolo palestinese.

“I palestinesi non hanno alcun obbligo morale o legale di accogliere gli israeliani a proprie spese. Sotto ogni logica, è Israele ad avere l’obbligo di correggere la monumentale ingiustizia che ha commesso”, ha scritto il famoso storico palestinese Salman Abu Sitta, in riferimento alla Nakba e al diritto al ritorno per i profughi palestinesi.

Di fatto, la Nakba è una storia palestinese che comprende il passato, il presente e anche il futuro. Non è solo una storia di vittimizzazione, ma anche di “Sumoud” (Fermezza) palestinese e resistenza. È l’unica piattaforma veramente unificante che riunisce tutti i palestinesi, al di là delle restrizioni delle fazioni, della politica o dell’area geografica di appartenenza.

Per i palestinesi, la Nakba non è una singola data. È la loro storia, la cui conclusione sarà scritta, questa volta, dai palestinesi stessi.

(Leggi l’originale in inglese qui)

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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