By Ramzy Baroud
Questo articolo è stato scritto poco prima che Israele assassinasse a Beirut, il 2 gennaio, il vicecapo dell’ufficio politico di Hamas Saleh al-Arouri. L’omicidio è un’ulteriore dimostrazione del desiderio del governo israeliano di sfuggire alle conseguenze del disastroso attacco contro Gaza, innescando un conflitto regionale.
Gli scontri tra Hezbollah e Israele sono simili a una vera e propria guerra, conflitti che il confine tra Libano e Israele ricorda dal 2006. All’epoca si era concluso tutto con una precipitosa ritirata israeliana, se non con la totale sconfitta.
Spesso ci riferiamo al conflitto in corso tra Libano e Israele come a scontri “controllati”, semplicemente perché entrambe le parti non desiderano impegnarsi in una guerra totale.
Ovviamente Hezbollah vuole preservare le vite libanesi, e le infrastrutture civili, che finirebbero sicuramente danneggiate, se non distrutte, in caso Israele decidesse di lanciare una guerra.
Ma Israele sa bene che si tratta di un Hezbollah diverso da quello degli anni ’80, 2000 e perfino 2006.
Rispetto al comportamento tenuto nella guerra del 2006, la risposta israeliana all’azione militare di Hezbollah, solidale alla Resistenza di Gaza, si è molto attenuata.
La guerra del 2006 fu presumibilmente provocata da un attacco di Hezbollah contro soldati israeliani, ne rimasero uccisi tre. (Hezbollah afferma che i soldati avevano violato la sovranità libanese, come accaduto numerose volte prima, e da allora.)
Quel singolo evento portò a una grande guerra che devastò il Libano, ma che si concluse con la ritirata e la sconfitta dell’esercito israeliano.
Immaginate cosa avrebbe fatto Israele, secondo gli standard del 2006, se Hezbollah avesse ucciso e ferito centinaia di soldati israeliani, bombardato decine di basi militari, installazioni e insediamenti, come sta facendo ogni giorno da ottobre.
Hezbollah è cambiato
Nonostante numerose minacce, Israele deve ancora entrare nella guerra che si propone di spingere le forze di Hezbollah oltre il fiume Litani, garantendo così gli insediamenti ebraici al confine. Ma perché questa esitazione?
Anzitutto, i combattenti di Hezbollah sono molto più forti di prima.
Per anni Hezbollah ha combattuto in contesti di guerra tradizionali, in particolare in Siria, creando una generazione di combattenti e comandanti temprati dalla battaglia, non più vincolati alle regole della guerriglia, come in passato.
In secondo luogo, le capacità missilistiche di Hezbollah sono cresciute in modo esponenziale dal 2006, non solo in termini di numeri – fino a 150.000 secondo alcune stime – ma anche in termini di precisione, capacità esplosiva e portata.
Hezbollah, inoltre, si è distinto nello sviluppo di razzi e missili, tra cui il potente Burkan, un razzo a corto raggio, che può trasportare una testata pesante, tra i 100 e i 500 chilogrammi. Hezbollah è ormai autosufficiente in termini di armi, e di munizioni.
In terzo luogo, le sofisticate unità d’élite Radwan di Hezbollah, e un elaborato sistema di tunnel che si estende nel profondo del nord di Israele, costringerebbero Israele a confrontarsi con una realtà militare completamente diversa da quella dell’ultima guerra, in caso di grave conflitto militare.
Infine, l’esercito israeliano è a brandelli, demoralizzato, estremamente esausto e indebolito dalle continue perdite sul fronte di Gaza. Non è nelle condizioni adeguate per combattere una guerra lunga e difficile, contro un nemico davvero preparato.
Considerato tutto questo, non bisogna prendere troppo sul serio esternazioni come quelle del Ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha, per esempio affermato “Israele sta combattendo una guerra su sette fronti diversi”.
In realtà, l’esercito israeliano sta ancora combattendo un’unica guerra a Gaza, una guerra che non sta vincendo.
Provocare l’Iran
Per distrarre dalle perdite subite a Gaza, e dall’incapacità di lanciare una grande guerra contro il Libano, Tel Aviv vuole trascinare Teheran nei conflitti.
Ma perché Israele dovrebbe inasprirsi contro il più forte dei suoi nemici nella regione, se non è nemmeno in grado di sconfiggere quelli più piccoli?
La risposta, in sintesi, è che impegnandosi direttamente con l’Iran, Israele costringerebbe gli Stati Uniti a una grande guerra regionale.
Ricordiamo tutti la decisione dell’amministrazione Biden, apparentemente strana, di inviare una portaerei sulle coste israeliane del Mediterraneo, subito dopo l’inizio dell’attacco contro Gaza, il 7 ottobre. (La Gerald R. Ford è stata ritirata il 31 dicembre).
Washington voleva inviare un chiaro messaggio all’Iran, minacciando che un attacco contro Israele sarebbe stato considerato un attacco agli Stati Uniti. Quando è diventato chiaro che l’Iran non aveva alcun interesse, Washington deve aver capito che il pericolo di una guerra regionale non deriva da Teheran, ma dalla stessa Tel Aviv.
Da allora l’intelligence e le stime politiche ufficiali degli Stati Uniti hanno iniziato a proclamare, ripetutamente, che l’Iran non aveva nulla a che fare con l’operazione di Hamas del 7 ottobre, e che l’Iran non è interessato alla guerra.
Il destinatario di quel messaggio era Israele, e tutti gli alleati occidentali, che da anni mirano a una guerra tra Stati Uniti e Iran.
La mancanza di interesse di Biden, ovviamente, non ha nulla a che fare con una propensione alla pace, ma piuttosto con la mancanza di obiettivi geostrategici seri in Medio Oriente, specialmente dopo il disastroso fallimento in Ucraina, e il rapido esaurimento di armamenti e munizioni.
Israele, tuttavia, ha insistito. Ha continuato ad accusare l’Iran di essere dietro all’attacco di Hamas, e a definirlo come la principale “minaccia esistenziale” allo “Stato ebraico”.
Nella visione di Israele, l’azione collettiva di Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese, Hezbollah in Libano, Ansarallah in Yemen, e Resistenza islamica in Iraq, sono tutti frammenti di un ampio piano iraniano per distruggere Israele.
Per sconfiggere questa immaginaria minaccia , Israele ha provocato ripetutamente l’Iran, bombardando posizioni militari iraniane in Siria, e uccidendo il 25 dicembre un importante comandante iraniano, il generale Sayyed Ravi Mousavi, vicino a Damasco.
Biden il facilitatore
Secondo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, una guerra tra Stati Uniti e Iran costituirebbe un’ancora di salvezza per un politico disperato che comprende, pienamente e giustamente, che la mancata vittoria a Gaza equivarrebbe a una pessima figura dell’esercito israeliano.
Una simile sconfitta rappresenterebbe non solo una fine vergognosa per la carriera politica di Netanyahu, ma anche la fine di un mito a lungo sostenuto secondo il quale Israele e Stati Uniti possono imporre la loro volontà politica in Medio Oriente, attraverso superiorità militare e potenza di fuoco.
L’amministrazione Biden è di certo consapevole delle intenzioni di Netanyahu, ovvero trascinare la regione nell’abisso di una guerra devastante, senza precedenti nella storia moderna.
I disaccordi segnalati e, di fatto, una spaccatura tra Biden e Netanyahu, non sono legati a un’obiezione di tipo morale degli Stati Uniti, ma al timore che un’ulteriore guerra in Medio Oriente potrebbe accelerare il crollo del potere americano nel settore energetico.
Quindi l’attuale stallo: l’incapacità di Washington di liberarsi da un cieco impegno nei confronti di Israele e della violenta ideologia sionista, e l’incapacità di Netanyahu di scegliere tra l’obiettivo di sostenere la sua carriera personale, e quello di distruggere l’intero Medio Oriente.
Biden continua ad alimentare la macchina militare israeliana, utilizzata principalmente per uccidere civili a Gaza, perché è incapace di anteporre gli interessi degli Stati Uniti a quelli di Israele.
Questo sta permettendo a Netanyahu di perpetrare l’attacco su Gaza, lavorando al contempo all’espansione del conflitto, in modo che raggiunga Beirut, Teheran e altre capitali.
Inutile dire che Netanyahu, abilmente descritto dalla deputata americana Rashida Tlaib come un “maniaco genocida”, deve essere fermato.
Il genocidio israeliano contro Gaza rischia di moltiplicarsi in ulteriori genocidi, in tutto il Medio Oriente.
Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui.
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