By Ramzy Baroud
Tutte le guerre israeliane scatenate contro i palestinesi nel corso degli anni sono state promosse e giustificate da Tel Aviv in nome della “sicurezza” e della “lotta al terrorismo”.
La più grande sfida di Israele, durante molte di queste guerre, non è stata la resistenza palestinese, per quanto ferma e resiliente. La sfida vera è sempre stata la capacità di Tel Aviv di uccidere molti palestinesi, compresi i civili, senza rovinare la sua immagine perfetta di oasi di democrazia e civiltà a livello internazionale.
Ma se Israele sta perdendo terreno sul campo delle pubbliche relazioni, ora si può dire che stia perdendo anche su un altro fronte.
Durante i suoi 75 anni di storia, dalla nascita violenta sulle rovine della Palestina storica nel maggio 1948, fino alla sua ultima guerra contro Gaza il 9 maggio, Israele è sempre stato associato alla violenza.
La propaganda occidentale filo-israeliana, unita alla magistrale capacità israeliana di manipolare i fatti e riscrivere la storia, ha permesso a Israele di attribuire sempre agli altri le ragioni della propria violenza: in primo luogo, agli arabi che, secondo la loro versione dei fatti, avrebbero attaccato Israele, più e più volte, senza alcuna provocazione; poi, i “terroristi” palestinesi di ogni colore ideologico, i socialisti, i laici e, ultimamente, i “fondamentalisti islamici”.
Purtroppo, la hasbara israeliana ha funzionato, non perché fosse intrinsecamente geniale, ma per l’esclusione pressoché totale delle voci palestinesi in ogni ambito. Questo isolamento intenzionale continua ancora oggi e si è esteso anche ai social media, in primis Facebook.
Ma la lotta per la verità, l’onestà intellettuale e la libertà di parola continua, e i successi palestinesi sono ora di gran lunga maggiori di tutti i tentativi di Israele, dei suoi benefattori e sostenitori di censurare, mettere da parte o silenziare la voce palestinese.
Sembrano finiti i giorni in cui i crimini israeliani si nascondevano o la colpa veniva attribuita a qualcun altro.
Ci sono varie ragioni per cui la propaganda israeliana sembra essere sempre meno efficace. Oltre al potere e all’influenza esercitati dagli intellettuali palestinesi, dagli attivisti sui social media e dalle numerose piattaforme messe loro a disposizione dalle innumerevoli reti di solidarietà in tutto il mondo, è la stessa hasbara israeliana a essere diventata debole e poco convincente.
Israele è una società frammentata. Certo, gli israeliani sono molto più uniti durante i periodi di guerra, ma questa volta, la loro unità è apparsa di facciata e alquanto irrilevante.
L’ascesa di un governo di estrema destra, persino fascista, sotto la guida del controverso primo ministro Benjamin Netanyahu, lo scorso dicembre, ha generato proteste di massa in tutte le città israeliane. Netanyahu, in enorme difficoltà, aveva bisogno di uno sbocco, per unificare gli israeliani infuriati e soddisfare le aspettative dei suoi ministri di estrema destra. Ha quindi deciso di attaccare Gaza.
La scelta di spostare l’attenzione dalle crisi politiche interne alla Palestina è una tattica consolidata, per Israele. Tuttavia, la Resistenza Palestinese negli ultimi anni, sempre più organizzata e compatta, ha fatto sì che le guerre contro Gaza non possano più essere considerate una strada facile. La guerra del maggio 2021, denominata “Operazione Guardiano delle Mura” da Israele e “Spada di Gerusalemme” dai palestinesi, ad esempio, è stata, per Israele, un promemoria di come certi errori di calcolo da parte di Tel Aviv possano rivelarsi drammaticamente controproducenti.
Quindi Netanyahu ha deciso di fare ricorso a una tattica diversa: scatenare una mini guerra che prenda di mira un solo gruppo palestinese alla volta, in una determinata zona; ad esempio, gli Areen Al-Usud (Covo dei Leoni) a Nablus, o il Jihad Islamico a Gaza.
La scelta di Netanyahu di attaccare Gaza e assassinare i comandanti del braccio militare del Jihad Islamico, le Brigate Al-Quds, non è stata casuale. Il gruppo è abbastanza forte affinché un’operazione militare così decisiva e sanguinosa possa essere spacciata da Netanyahu e dai suoi sostenitori come un ripristino della “deterrenza” israeliana, senza però addentrarsi in un conflitto prolungato e dispendioso con tutti i gruppi della Resistenza Palestinese.
Questa tattica ha funzionato in passato, almeno dal punto di vista israeliano. Nel novembre 2019, Israele ha lanciato una guerra contro il Jihad Islamico a Gaza, denominata “Operazione Cintura Nera”. Sebbene allora altri gruppi della Resistenza avessero dichiarato il loro sostegno al Jihad Islamico, non furono direttamente coinvolti nelle operazioni. Per quale motivo?
Per anni, la Resistenza a Gaza ha cercato di cambiare le regole di ingaggio. Invece di consentire a Israele di determinare il tempo e il luogo della guerra, sulla base dell’agenda e del grado di preparazione di Tel Aviv, le fazioni della Resistenza a Gaza volevano avere voce in capitolo sulla tempistica di tali conflitti.
Israele non ha compreso appieno la strategia palestinese e ha dedotto che l’Operazione “Cintura Nera” avesse denunciato la debolezza, l’indecisione e, cosa più pericolosa, la mancanza di unione tra i palestinesi.
La guerra del maggio 2021 e l’Intifada dell’Unità avrebbero dovuto però mettere in guardia Israele sul fatto che i gruppi della Resistenza fossero rimasti uniti e che la Sala Comune delle Operazioni della Resistenza, che include, tra gli altri, Hamas, Jihad Islamico e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, continuasse ad agire all’unisono.
Netanyahu ha voluto ignorare il chiaro messaggio inviato dai palestinesi, non solo a Gaza, ma anche attraverso la Resistenza unificata in Cisgiordania, forse perché troppo disperato nel tentativo di distogliere l’attenzione dalla crisi politica e dai processi per corruzione. Per qualche motivo, Netanyahu pensava di poter replicare con successo l’esperienza dell’Operazione “Cintura Nera”, dividere la Resistenza e ripristinare la “deterrenza”.
Subito dopo l’assassinio dei comandanti Jihad al-Ghannam, Khalil al-Bahtini e Tariq Ezz al-Deen, il 9 maggio, Netanyahu è apparso in conferenza stampa insieme alla sua nemesi, il Ministro della Difesa Yoav Gallant. I due hanno prematuramente annunciato la presunta vittoria di Israele. I toni trionfali, tuttavia, non sono durati a lungo. Dopo 35 ore di sconcertante silenzio, mentre quasi due milioni di israeliani si nascondevano nei rifugi in attesa di una possible ritorsione, la Resistenza ha risposto.
Una pioggia di razzi lanciati dalla Resistenza hanno seminato il panico a Sderot, Ashkelon e Netivot, raggiungendo anche Rehovot e Gush Etzion.
Improvvisamente, la guerra di “deterrenza”, denominata “Operazione Scudo e Freccia” dall’esercito israeliano, si è trasformata in un incubo per Netanyahu. Eppure, la risposta arrivava solo dal Jihad Islamico, seppure in coordinamento e con il sostegno delle altre fazioni della Resistenza.
Sebbene Hamas, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e altri abbiano pienamente sostenuto il Jihad Islamico nella sua lotta, i politici israeliani si sono comunque astenuti dal ricorrere alle consuete minacce di assassinio contro tutti i capi della Resistenza Palestinese. L’unica eccezione è stata quella del Ministro israeliano dell’Energia e delle Infrastrutture, Israel Katz, che ha minacciato, in un’intervista al notiziario di Canale 11 israeliano, di “eliminare” i massimi leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar e Mohammed Deif.
Dopo il raggiungimento del cessate il fuoco, nella serata del 13 maggio, gli accoliti di Netanyahu si sono lanciati in discorsi retorici sulla splendida vittoria sul “terrorismo”, mentre gli esperti di comunicazione filo-israeliani si adoperano per distorcere i fatti e attribuire la colpa ai palestinesi, compresi i bambini.
Ma la verità incontestabile è che la Resistenza Palestinese è riuscita a sfidare, se non a ribaltare, le regole di ingaggio come mai prima d’ora.
Cosa ancora più importante, i palestinesi sul campo ci hanno dimostrato che l’unità non si esprime attraverso il linguaggio retorico, gli slogan vuoti e le conferenze stampa negli hotel di lusso. La vera unità è quella di coloro che resistono sul campo, da Gaza a Nablus, e da Jenin a Sheikh Jarrah.
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