‘Le bimbe morte sono troppo fredde’ – Una famiglia di Gaza racconta al Palestine Chronicle il suo insopportabile dolore

Suwar al-Hajj è stata uccisa da un attacco aereo israeliano la notte del suo terzo compleanno. (Foto: supplied)

By Abdallah Aljamal

Il Palestine Chronicle ha parlato con alcuni residenti della Striscia, che hanno perso membri della loro famiglia per gli incessanti attacchi israeliani.

Secondo i dati forniti dal Ministero della Sanità, più di 13.200 bambini palestinesi sono stati uccisi dagli attacchi aerei su Gaza. Giovedì, parlando all’agenzia di stampa Anadolu, il portavoce dell’UNICEF James Elder ha definito gli eventi in corso una “guerra ai bambini”.

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“In tutte le guerre, i bambini sono i più vulnerabili. Circa il 20% delle vittime sono bambini nelle guerre, ma a Gaza la percentuale è vicina al 40%”.

Il Palestine Chronicle ha parlato con alcuni residenti della Striscia, che hanno perso membri della loro famiglia negli incessanti attacchi israeliani.

Terzo compleanno

“La sera di domenica 17 marzo, la figlia di mio fratello Tariq, Suwar, stava festeggiando il suo terzo compleanno. Non immaginava di essere sulla via del suo ultimo respiro in questa vita” racconta Abdullah al-Hajj al Palestine Chronicle.

Quella notte, un attacco aereo israeliano ha colpito un intero isolato residenziale del campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, uccidendo sul colpo Suwar, e sua sorella di 5 anni, Amar.

“Ogni anno festeggiavamo i compleanni delle figlie di mio fratello, Amar e Suwar, come fanno tutti i genitori. Ma quest’anno non potevamo organizzare una piccola festa come al solito. Così abbiamo deciso di parlare via telefono”.

“Mi ha detto che le mancavamo, e poi è rimasta in silenzio a lungo”.

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Il fratello di Abdullah, Tariq, viveva in un piccolo appartamento residenziale sulla Ventesima Strada nel campo di Al-Nuseirat, insieme alla moglie Lena, 26 anni, e alle loro due figlie Amar e Suwar.

Dall’inizio dell’attacco israeliano, quella particolare strada è stata presa di mira più volte dai bombardamenti, provocando centinaia di vittime e la distruzione di decine di edifici.

“A causa degli incessanti bombardamenti israeliani sul quartiere, mio ​​fratello Tariq aveva deciso di rifugiarsi a casa dei nostri genitori. Pochi giorni dopo, gli occupanti hanno bombardato una casa vicina, causando gravi danni e ferendo i miei genitori, mio ​​fratello e tutti quelli che si trovavano nell’edificio”, ci racconta al-Hajj.

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“Dopo aver ricevuto le cure in ospedale, si sono trasferiti tutti nel mio piccolo appartamento”.

Quando, però, le forze d’invasione israeliane hanno preso d’assalto la periferia orientale del campo di Nuseirat, la famiglia è stata costretta a dividersi.

“Mia moglie, mia figlia e io siamo fuggiti a Deir Al-Balah, mentre mio padre e mio fratello Tariq sono fuggiti con le loro famiglie a Rafah”, spiega al-Hajj.

Ritorno a casa

Quando le forze israeliane si sono ritirate da Al Nuseirat, molti palestinesi hanno deciso di ritornare, perché vivere in una tenda è estremamente difficile. Malattie, epidemie e fame si diffondono rapidamente tra i rifugiati sfollati.

“Siamo tornati tutti al campo profughi di Nuseirat, anche se avevamo perso la casa e i mezzi di sussistenza quando l’occupazione ha bombardato il nostro piccolo negozio di alimentari”, racconta al-Hajj.

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“Ero molto legato a mio fratello e alle sue due figlie, parlavo con le bambine tutti i giorni. Sono stati i primi nipoti, e tutti li amavano”, prosegue al-Hajj con la voce spezzata.

“Fin dall’inizio della guerra abbiamo cercato di prenderci ancor più cura di loro, per compensare la paura e il trauma”.

“Non dimenticherò mai la mia ultima chiamata con Tariq, quella domenica sera, quando ho augurato un felice compleanno a Suwar, le ho raccomandato di non uscire da casa e di prendersi cura di sé stessa”.

“Più tardi abbiamo sentito intensi bombardamenti, e abbiamo saputo che avevano colpito un quartiere residenziale sulla Ventesima Strada a Nuseirat.” Sono seguiti momenti di panico.

“Ho chiamato mio fratello Tariq, ma non ha risposto. Sono andato correndo, a piedi, e ho trovato il quartiere completamente distrutto. Più di 17 edifici sono stati completamente o parzialmente distrutti. La devastazione nella zona è indescrivibile”.

“Ho cercato mio fratello Tariq e la sua famiglia, sono salito nel suo appartamento e ho trovato la casa completamente distrutta”, spiega al-Hajj, ancora sotto shock.

“Ho trovato mio fratello sotto le macerie, con fratture e ferite su tutto il corpo, e con gli occhi gravemente danneggiati. Ho trovato sua moglie con una frattura alla schiena. Sono stati trasferiti in ospedale, e la moglie di mio fratello è stata sottoposta a un intervento chirurgico. Le sue condizioni sono ancora instabili”.

Al-Hajj e altri soccorritori hanno cercato le bambine ovunque, senza riuscire a trovarle.

“Di solito dormivano nella stanza accanto a quella dei genitori. Dopo una lunga ricerca, le abbiamo trovate: lontano da casa”.

“Quando le ho viste, ho iniziato a parlare con loro, ma non rispondevano. Le ho portate di corsa in ospedale, pregando che fossero ancora vive”.

“Sono rimasto scioccato quando i medici dell’ospedale di Al-Aqsa mi hanno detto che non potevano più fare nulla. Le bambine erano state uccise dai bombardamenti”.

In quella tragica notte, i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 25 palestinesi nel quartiere, la maggior parte dei quali bambini e donne.

“Non abbiamo potuto seppellirle subito a causa dell’intensità dei bombardamenti, le hanno messe in un frigorifero all’obitorio. Quando la zia è arrivata in ospedale per salutarle l’utlima volta, era sconvolta e ha cominciato a urlare: ‘Hanno freddo, hanno troppo freddo’”.

“Ho preso una coperta per coprirle”, racconta al-Hajj, in lacrime. “Ho coperto le figlie di mio fratello, Amar e Sawar con una coperta, perché non prendessero freddo, e poi le ho seppellite con le mie mani nel cimitero”.

“Ora mio fratello Tariq è solo con sua moglie, e viviamo nel dolore per la perdita dei nostri due fiori, Amar e Sawar. Non potremo mai più vederle, e nemmeno festeggiare i loro compleanni”.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

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