La speranza nasce dalla disperazione: Chi è Khalida Jarrar, leader palestinese detenuta da Israele

(Image: Palestine Chronicle)

By Redazione Palestine Chronicle

Le forze israeliane hanno arrestato l’iconica leader palestinese Khalida Jarrar martedì 26 dicembre, nella sua casa a Ramallah, Cisgiordania occupata.

L’agenzia di stampa Anadolu cita testimoni oculari che hanno visto le forze di occupazione israeliane prendere d’assalto la città di Al-Bireh, vicino a Ramallah, all’alba. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Jarrar prima di portarla via.

Jarrar, leader di spicco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, è stata arrestata più volte dall’occupazione israeliana, e ha trascorso diversi anni in prigione, la maggior parte dei quali in isolamento.

La storia, e le idee di Khalida Jarrar, sono incluse nell’ultimo volume di Ilan Pappé e Ramzy Baroud, “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Intellectuals and Leaders Speak out”. 

Il testo che segue è in un capitolo dal titolo “CREARE SPERANZA DALLA DISPERAZIONE: Come resistere e vincere nelle carceri israeliane”.

Khalida Jarrar

Khalida Jarrar nasce a Nablus, nel nord della Cisgiordania, il 9 febbraio 1963. Si laurea in Economia aziendale, e poi consegue un Master in Democrazia e Diritti Umani presso l’Università di Birzeit. 

E’ stata direttrice dell’Associazione per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri di Addameer dal 1994 al 2006, anno in cui è stata eletta nel Consiglio Legislativo Palestinese (PLC), il Parlamento palestinese. 

Attualmente è a capo della Commissione dei Prigionieri del PLC, e lavora nel Comitato Nazionale Palestinese in collaborazione con la Corte Penale Internazionale.

Il profilo di alto livello di Khalida Jarrar, come leader palestinese dedita alla denuncia dei crimini di guerra israeliani alle istituzioni internazionali, l’ha resa bersaglio di frequenti arresti e detenzioni amministrative. 

È stata incarcerata più volte, la prima nel 1989, in occasione della Giornata Internazionale della Donna. Aveva trascorso un mese in prigione, solo per aver preso parte alla manifestazione dell’8 marzo.

Nel 2015, è stata arrestata dai soldati di occupazione durante un raid prima dell’alba, quando hanno fatto irruzione nella sua casa a Ramallah. 

Inizialmente è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza processo ma, a seguito di una protesta internazionale, le autorità israeliane hanno portato Khalida Jarrar in un tribunale militare, dove le sono state mosse 12 accuse, basate interamente sulla sua attività politica. 

Alcune di queste accuse includevano comizi, assistenza, sostegno ai detenuti palestinesi e alle loro famiglie. Era stata condannata a 15 mesi di detenzione.

Khalida Jarrar è stata rilasciata nel giugno 2016, per poi essere nuovamente arrestata nel luglio 2017, in detenzione amministrativa. 

L’irruzione israeliana era stata particolarmente violenta, i soldati avevano distrutto la porta principale della sua casa, e confiscato varie attrezzature tra cui un iPad e il suo telefono cellulare. 

Era stata interrogata nella prigione di Ofer, prima di essere trasferita nella prigione di HaSharon, dove sono imprigionate molte donne palestinesi. 

Era stata rilasciata nel febbraio 2019, dopo aver trascorso quasi 20 mesi in prigione.

E ancora una volta, il 31 ottobre 2019,  Khalida Jarrar è stata arrestata nella sua casa a Ramallah. 

Durante la sua ultima prigionia, una delle sue due figlie, Suha, è morta a soli 31 anni.

Nonostante una campagna internazionale per consentire a Khalida di partecipare al funerale della figlia, il 13 luglio 2021, il governo israeliano aveva respinto tutti gli appelli. 

Era, comunque, riuscita a far uscire una lettera dalla prigione, nella quale scriveva parole di addio alla figlia:

“Suha, tesoro mio.

Mi hanno impedito di darti l’ultimo bacio d’addio.

Ti saluto con un fiore.

La tua assenza è terribilmente dolorosa, dolorosa in modo atroce.

Ma rimango ferma e forte,

come le montagne dell’amata Palestina”.

Khalida Jarrar è una dei tanti esempi di resistenza, ha portato fermezza e resilienza anche all’interno delle carceri israeliane, trovando opportunità per reagire, nonostante la reclusione, nonostante il dolore fisico e la tortura psicologica. 

Khalida Jarrar ha usato la reclusione come un mezzo per educare e responsabilizzare le compagne imprigionate, riuscendo con successo a cambiare il movimento delle detenute palestinesi.

Come resistere e vincere nelle carceri israeliane

La prigione non è solo alte mura, filo spinato, celle piccole e soffocanti con pesanti porte di ferro. 

Non è solo un luogo definito dallo stridore del metallo, il suono più comune che si ascolta nelle carceri ogni volta che vengono chiuse porte pesantissime, quando letti o armadi vengono spostati, quando le manette vengono bloccate ai polsi o allentate. Anche i “bosta”, i famigerati veicoli che trasportano i prigionieri da una struttura carceraria all’altra, sono bestie di metallo, fatte di metallo al loro interno, esterno, nelle porte e catene integrate.

No, il carcere molto più di tutto questo. È un luogo dove raccogliere storie di persone reali, di sofferenze quotidiane, fatte anche di lotta contro le guardie e l’amministrazione carceraria. Il carcere è una posizione morale, che deve essere assunta quotidianamente. 

La prigione è un luogo dove incontrare sorelle e fratelli che, nel tempo, diventano più vicini della tua stessa famiglia, dove si condividono agonia, dolore, tristezza e, nonostante tutto, a volte anche gioia. 

In prigione si contrasta insieme la guardia carceraria violenta, con ferma volontà e determinazione di spezzarlo prima che lui spezzi qualcuna delle compagne. 

La lotta è infinita, si manifesta in ogni forma possibile, dal rifiuto dei pasti, al confinamento volontario nelle celle, allo sforzo più faticoso fisicamente e psicologicamente: lo sciopero della fame. 

Questi sono solo alcuni degli strumenti che i prigionieri palestinesi utilizzano per lottare e conquistare i loro diritti fondamentali, per preservare parte della loro dignità.

La prigione diventa quindi l’arte di esplorare possibilità; è una scuola, che allena a risolvere le sfide quotidiane utilizzando i mezzi più semplici e creativi, che si tratti di preparare il cibo, rammendare vecchi vestiti o trovare un terreno comune per resistere e sopravvivere insieme.

In carcere bisogna prendere coscienza del tempo, altrimenti resta fermo. Si fa tutto il possibile per combattere la routine, per festeggiare e commemorare ogni occasione importante della vita, personale o collettiva.

Le storie individuali dei prigionieri palestinesi sono una rappresentazione di qualcosa molto più vasto, perchè tutti i palestinesi sperimentano ogni giorno la prigionia, in varie forme. 

La testimonianza di un prigioniero palestinese non è un’esperienza fugace, che riguarda solo chi l’ha vissuta, ma un racconto che scuote nel profondo il prigioniero, i suoi compagni, la sua famiglia e la sua intera comunità. 

Ogni storia rappresenta un’interpretazione creativa di vita vissuta, nonostante le difficoltà, da una persona il cui cuore batte d’amore per la sua terra e per la sua preziosa libertà.

Ogni episodio individuale è un momento determinante, un conflitto tra la volontà della guardia carceraria e tutto quel che rappresenta, e la volontà dei prigionieri e ciò che rappresentano come collettivo capace, nell’unione, di superare incredibili difficoltà. 

La sfida dei prigionieri palestinesi è un riflesso della sfida collettiva e ribelle del popolo palestinese, che rifiuta di essere ridotto in schiavitù nella propria terra, determinato a riconquistare la libertà, con la stessa volontà e lo stesso vigore dei popoli trionfanti di nazioni un tempo colonizzate.

Le sofferenze e le violazioni dei diritti umani, vissute dai prigionieri palestinesi, contrarie al diritto internazionale e umanitario, sono solo un aspetto dell’esperienza in carcere. 

L’altro aspetto può essere davvero compreso e trasmesso solo da chi ha vissuto queste esperienze strazianti. Spesso, nelle storie dei prigionieri palestinesi, manca il percorso umano di uomini e donne palestinesi che sono sopravvissuti a momenti drammatici, mancano tutti i dettagli dolorosi e le loro sfide.

Scavando più a fondo nelle testimonianze dei prigionieri, allora si può iniziare a comprendere cosa significa perdere una madre amatissima mentre si è confinati in una minuscola cella, come si affronta una gamba rotta, come si può sopportare la negazione di visite familiari per anni, e vedersi negato il diritto all’istruzione, oppure come affrontare la morte di un compagno.

È importante comprendere le sofferenze sopportate dai prigionieri, dai numerosi atti di tortura fisica, al tormento psicologico e isolamento prolungato, ma è altrettanto necessario comprendere il potere della volontà umana, quando uomini e donne decidono di reagire, di rivendicare i propri diritti naturali e tenere stretta la propria umanità.

La reazione può avere molte forme. Durante i vari periodi di detenzione come prigioniera politica nelle carceri israeliane, anch’io ho preso parte alle varie forme di resistenza all’interno delle mura. Per me, l’istruzione delle detenute palestinesi era diventata una priorità urgente.

Le detenute nelle carceri israeliane vengono trattate in modo leggermente diverso rispetto agli uomini, non solo in termini di natura delle violazioni commesse, ma anche per il grado di isolamento. Dato che il numero di detenute donne è inferiore rispetto a quello degli uomini, è più facile per le autorità carcerarie israeliane isolarle completamente dal resto del mondo. Inoltre, sono poche le detenute con titolo universitario; il livello di istruzione di queste donne è allarmante.

Ero già a conoscenza di questi fatti quando sono stata detenuta da Israele nel 2015, e ho trascorso gran parte della mia detenzione nella prigione di HaSharon. Quindi ho deciso di concentrarmi sulla questione dell’istruzione per le donne, a cui è stata negata l’opportunità di finire la scuola già da bambine, e per quelle a cui è stato negato il diritto a causa delle difficili condizioni sociali. L’idea mi aveva subito ossessionata: se avessi potuto aiutare alcune donne a conseguire il diploma di scuola superiore, avrei fatto buon uso del mio tempo in detenzione. Questi diplomi possono consentire loro di conseguire titoli universitari non appena possibile, e alla fine di raggiungere un’indipendenza economica. Ma è ancora più importante riconoscere che, se dotate di una solida istruzione, queste donne potrebbero contribuire ancora di più all’emancipazione delle comunità palestinesi.

Tuttavia, ci sono molti ostacoli da affrontare, per tutti i detenuti, ma soprattutto per le donne. Le autorità carcerarie israeliane impongono numerose restrizioni ai prigionieri che vogliono seguire un percorso di studi. Anche quando il Servizio penitenziario israeliano (IPS) accetta, in linea di principio, fa comunque in modo che manchino tutte le condizioni pratiche necessarie, inclusa la disponibilità di aule, lavagne, materiale scolastico e insegnanti qualificati.

Quest’ultimo ostacolo è stato superato grazie al mio master, che mi qualifica, secondo il Ministero dell’Istruzione Palestinese, a prestare servizio come insegnante, e a supervisionare gli esami finali delle scuole superiori, noti come Tawjihi. 

Vedere l’eccitazione sui volti delle ragazze quando ho proposto loro l’idea, mi ha ispirata e incoraggiata ad intraprendere questo compito davvero arduo, è stata la prima iniziativa del genere nella storia delle donne palestinesi prigioniere nelle carceri israeliane.

Ho iniziato contattando il Ministero dell’Istruzione per comprendere le loro regole e aspettative, e come si possono applicare alle detenute che vogliono studiare per gli esami. Il mio primo gruppo di studenti era composto da cinque donne, che avevano accettato la sfida con grande entusiasmo.

In quella fase iniziale, l’amministrazione penitenziaria non era consapevole della natura della nostra “operazione”, quindi le loro restrizioni erano meramente tecniche e amministrative. L’esperienza era, infatti, nuova per tutti noi, soprattutto per me.

Devo ammettere di aver forse esagerato con le mie aspettative, nel tentativo di garantire un alto grado di professionalità accademica sia nello svolgimento delle lezioni, sia nell’esame finale. Volevo assicurarmi di non violare in alcun modo i miei principi, volevo davvero che le ragazze si guadagnassero i loro diplomi, e che pretendessero molto da loro stesse.

Avevamo poco materiale scolastico. Ogni classe doveva condividere un unico libro di testo, lasciato dai bambini palestinesi prigionieri prima di essere trasferiti dall’IPS in un’altra struttura. Abbiamo copiato a mano, e in questo modo più studentesse hanno potuto seguire le lezioni contemporaneamente.

Le mie studentesse hanno lavorato duramente. Una singola lezione, a volte, durava diverse ore, il che significava perdere volontariamente l’unica pausa del giorno in cui potevano lasciare le celle. Avevamo così tanto da fare e così poco tempo. Alla fine, cinque studentesse hanno sostenuto l’esame, i risultati sono stati inviati al Ministero dell’Istruzione per la loro approvazione. Dopo alcune settimane, i risultati sono arrivati. Sono state promosse due studentesse.

È stato un momento straordinario. La notizia che due di loro avevano conseguito il diploma mentre erano in prigione, si è diffusa rapidamente tra tutti i detenuti, le loro famiglie e le organizzazioni che difendono i diritti dei prigionieri. Le ragazze hanno festeggiato, e tutte le loro compagne si sono sentite davvero felici per loro.

Ci siamo mobilitate di nuovo, e in fretta, preparandoci a creare una nuova classe. Tuttavia, più saliva l’attenzione dei media per il nostro risultato, più aumentava la preoccupazione delle autorità carcerarie israeliane. Non mi ha affatto sorpreso quando l’IPS ha deciso di rendere difficile la stessa esperienza anche al secondo gruppo, composto anch’esso da cinque studentesse.

È stata una vera battaglia, ma volevamo combatterla fino alla fine, nonostante la pressione. L’amministrazione penitenziaria mi ha informata ufficialmente che non mi era più permesso insegnare alle detenute.

Mi hanno molestata ripetutamente, minacciando di mandarmi in isolamento. Ma conosco bene il diritto internazionale, quindi ho affrontato gli israeliani perché conoscevo i diritti dei prigionieri e non avevo alcuna intenzione di fare marcia indietro. Nonostante tutto questo, sono riuscita a insegnare al secondo gruppo di ragazze, preparando io stessa gli esami, in coordinamento con il Ministero dell’Istruzione. Questa volta, tutte e cinque le studentesse hanno superato l’esame. È stato un grande trionfo.

Dopo quel che abbiamo ottenuto, ho capito che è necessario istituzionalizzare l’esperienza educativa delle donne detenute senza legarla a me, o a una singola persona. Per avere successo a lungo termine, era necessario uno sforzo collettivo, una missione che ogni gruppo di donne detenute avrebbe dovuto sostenere negli anni a venire. Ho dedicato gran parte della mia attenzione alla formazione di detenute qualificate, coinvolgendole nell’insegnamento, e spiegando loro il lavoro amministrativo richiesto dal Ministero dell’Istruzione. Ho predisposto l’apparato per garantire una transizione graduale per il terzo gruppo di diplomandi, prima del il mio imminente rilascio.

Sono stata liberata nel giugno 2016. Quando sono tornata alla mia vita normale, e al mio lavoro, non ho mai smesso di pensare alle mie compagne in prigione, alle loro lotte e sfide quotidiane, in particolare a chi desidera ricevere l’istruzione di cui ha bisogno, e che merita. Mi sono sentita davvero entusiasta quando ho saputo che due detenute hanno sostenuto gli esami finali, dopo la mia partenza, diplomandosi con successo.

Mi sono sentita felice come quando mia hanno liberata e sono tornata dalla mia famiglia. Sono stata anche sollevata nell’apprendere che il sistema, che avevo messo in atto prima del mio rilascio, stava funzionando. Questo mi ha dato davvero molta speranza per il futuro.

Nel luglio 2017, l’esercito israeliano mi ha arrestata di nuovo, questa volta per 20 mesi. Sono tornata nella stessa prigione di HaSharon. C’erano molte più donne prigioniere rispetto a prima. Immediatamente, con l’aiuto di altre detenute qualificate, abbiamo cominciato a prepararci per il diploma del quarto gruppo. Nove detenute stavano studiando per l’esame, avevamo più insegnanti e amministratori volontari. La prigione sembrava improvvisamente fiorita, trasformata in un luogo di apprendimento e di empowerment.

L’amministrazione penitenziaria, a quel punto, è impazzita. Mi hanno accusata di istigazione e hanno avviato una serie di ritorsioni per bloccare l’intero processo. Abbiamo accettato la sfida.

Quando hanno chiuso la nostra classe abbiamo scioperato. Quando ci hanno confiscato penne e matite, abbiamo usato i pastelli. Quando hanno portato via la lavagna, abbiamo sganciato una finestra e abbiamo scritto su di essa. La trasportavamo di nascosto da una stanza all’altra, nei tempi designati per l’apprendimento.

Le guardie carcerarie hanno tentato con ogni mezzo di impedirci di esercitare il nostro diritto all’istruzione. Per dimostrare la nostra determinazione a sconfiggere le autorità carcerarie, abbiamo chiamato il quarto gruppo “La Coorte della Defiance”. 

Alla fine, la nostra volontà si è rivelata più potente delle loro ingiustizie. Abbiamo completato l’intero corso. Tutte le ragazze che hanno sostenuto l’esame finale, lo hanno superato a pieni voti.

Non posso descrivere come ci siamo sentite in quei giorni. È stata una vittoria enorme. Abbiamo decorato le mura della prigione e festeggiato. Eravamo tutte felici, sorridenti ed esultanti per quel che eravamo riuscite a realizzare insieme, quando siamo rimaste saldamente unite contro le regole ingiuste di Israele e della sua amministrazione carceraria.

La notizia si è diffusa oltre le mura del carcere, le famiglie dei diplomati hanno organizzato festeggiamenti in tutta la Palestina. Il quinto gruppo è stato il coronamento di quel risultato collettivo. È stata una dolce ricompensa, dopo mesi di lotte e difficoltà che avevamo sopportato insieme, insistendo sul nostro diritto all’istruzione. Altre sette studentesse stanno ora studiando per l’esame finale, con la speranza di unirsi alle altre 18 che hanno conseguito l’attestato, dalla prima esperienza nel 2015.

Le aspirazioni delle detenute si sono evolute, si sono sentite capaci e autorevoli grazie all’educazione ricevuta, soprattutto perché hanno dovuto sopportare molto per ottenere quel che dovrebbe essere un diritto umano fondamentale per tutti. 

Chi ha ottenuto i certificati Tawjihi adesso può progredire verso un livello di istruzione più elevato. Purtroppo il Ministero dell’Istruzione non è ancora pronto per questo passo, e le detenute stanno creando alternative temporanee.

Ho un Master in Democrazia e Diritti Umani, e ho anche una lunga esperienza in questo campo grazie al mio lavoro con Addameer e il PLC, tra le altre istituzioni, così ho offerto ai miei studenti un corso di formazione in diritto internazionale e umanitario.

Per insegnare sono riuscita a portare in prigione alcuni dei testi più importanti e rilevanti, relativi ai trattati internazionali sui diritti umani, inclusa la traduzione in arabo di tutte e quattro le Convenzioni di Ginevra. Alcuni di questi documenti sono stati portati dalla Croce Rossa, altri da familiari che sono venuti a trovarmi in carcere.

Al corso, suddiviso in più periodi, ciascuno di due mesi, hanno partecipato quarantanove detenute. Al termine del corso, le partecipanti hanno ricevuto attestati per aver completato 36 ore di formazione in Diritto Internazionale e Umanitario, i cui risultati sono stati confermati da diversi ministeri palestinesi. 

Mentre festeggiavamo in carcere, fuori si è tenuta una grande cerimonia sponsorizzata dal Ministero per gli Affari dei Prigionieri, alla quale hanno partecipato le famiglie e alcuni dei prigionieri liberati.

Alla fine, spinte dalla disperazione, abbiamo fatto anche di più. Ci siamo evolute nella narrativa, nel modo in cui percepiamo noi stesse, la prigione e le guardie carcerarie. 

Abbiamo sconfitto ogni persistente senso di inferiorità, trasformando le mura del carcere in un’opportunità. Quando ho visto i bellissimi sorrisi sui volti delle mie studentesse, ho capito che la mia missione era compiuta.

La speranza in carcere è come un fiore che nasce da una pietra. Per noi palestinesi l’istruzione è l’ arma più potente. Con quest’arma saremo sempre vittoriosi.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*