Morire per la libertà: Il rilascio dei detenuti palestinesi non è una questione numerica

Due detenute palestinesi rilasciate in seguito all'accordo tra Hamas e Israele. (Photo: via Social Media)

By Ramzy Baroud

Gli israeliani considerano i prigionieri detenuti a Gaza, sia civili che militari, in termini numerici mentre i palestinesi affrontano la questione da una prospettiva completamente diversa.

C’è una ragione per cui i palestinesi sono così entusiasti del rilascio dei i loro prigionieri, nonostante l’enorme prezzo che continuano a pagare per la loro libertà.

La domanda che sorge razionalmente è questa: che senso ha liberare alcuni detenuti palestinesi dalle carceri israeliane, se il prezzo da pagare è la morte di oltre 15.000 palestinesi a Gaza?

Effettivamente, anche se tutti i prigionieri palestinesi – circa 7.000 – venissero rilasciati, non rappresenterebbero nemmeno il 30% del numero totale di palestinesi morti e dispersi, finora, nel genocidio israeliano in corso sulla Striscia.

La logica può apparire ancora più sconcertante se consideriamo che, tra il 7 ottobre e il 28 novembre, Israele ha incarcerato oltre 3.290 palestinesi in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata.

Questo significa che il numero di donne e bambini palestinesi rilasciati in seguito ai vari scambi di prigionieri, avvenuti tra la Resistenza Palestinese e l’esercito israeliano nella settimana dal 24 al 30 novembre, è insignificante rispetto al numero di persone che sono state imprigionate durante lo stesso periodo.

Eppure, i calcoli matematici sono irrilevanti nelle guerre di liberazione. Se ricorriamo a questo tipo di logica, allora, forse è più razionale che le nazioni colonizzate e i gruppi oppressi non resistano, dato che, così facendo, potrebbero moltiplicare il danno inflitto loro da colonizzatori e oppressori.

Mentre gli israeliani considerano i prigionieri detenuti a Gaza, sia civili che militari, in termini numerici, i palestinesi affrontano la questione da una prospettiva completamente diversa.

Tutti i palestinesi sono prigionieri, questa è la realtà, perché tutti i palestinesi sono vittime del colonialismo israeliano, dell’occupazione militare e dell’apartheid. 

La differenza tra essere un detenuto nelle prigioni di Megiddo, Ofer o Ramleh, per esempio, ed essere un prigioniero in una città palestinese isolata e murata sotto occupazione militare israeliana nell’Area C in Cisgiordania, è puramente tecnica.

I prigionieri di Megiddo sono sottoposti a violenza, perfino a torture. Vengono loro negati ​​cibo adeguato, medicine e libertà di muoversi. Ma in che modo questo è tanto diverso dall’incarcerazione di 2,3 milioni di persone che vivono a Gaza?

Alcuni potrebbero addirittura argomentare che vivere a Gaza durante un genocidio, sia molto più limitante e pericoloso che essere un prigioniero politico in Israele, in circostanze “normali”.

Quindi, è chiaro, la questione non è legata ai numeri, ma ai rapporti di potere.

Secondo il diritto internazionale, Israele è la potenza occupante. Ciò conferisce a Israele determinati diritti, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, ma attribuisce loro anche numerose responsabilità. 

Per decenni Israele ha abusato di questi “diritti” e ha completamente ignorato ogni sua responsabilità. 

Nel contempo i palestinesi hanno fatto appello alla comunità internazionale, arrivando anche ad implorare, affinché si imponesse la legge del diritto internazionale su Israele, ma senza successo.

Va rammentata la pietosa esibizione del presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, durante un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15 maggio. 

“Proteggici”, ha detto più volte, prima di fare un’analogia tra palestinesi e animali. “Non siamo esseri umani? Anche gli animali vanno protetti. Se hai un animale, non lo proteggerai? Proteggici!”

La maggior parte dei palestinesi sa bene che le istituzioni internazionali, dominate dagli Stati Uniti e dall’Occidente, non forniranno protezione ai palestinesi basandosi su qualsivoglia logica morale, né tantomeno sull’amore per gli animali.

Questa consapevolezza esiste da generazioni tra i palestinesi, visto che la comunità internazionale non è riuscita a far rispettare una sola e unica risoluzione delle Nazioni Unite contro Israele. 

Riguardo il genocidio in corso a Gaza, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha dichiarato, il giorno 8 novembre, che l’ONU non ha né “denaro né potere” per impedirlo, rivelando apertamente quanto sia irrilevante la comunità internazionale. 

Guterres, e altri alti funzionari delle Nazioni Unite, sono estremamente consapevoli del ruolo marginale che la comunità internazionale può svolgere nell’aggressione israeliana contro Gaza, e questo a causa della forte posizione degli Stati Uniti a sostegno di Israele. 

Finché Washington continuerà a giocare un ruolo di avanguardia nei crimini di guerra israeliani in Palestina, Tel Aviv non avrà un motivo per fermarsi.

I palestinesi, perciò, mettono in atto l’azione di tutti gli altri popoli occupati e colonizzati in circostanze simili. Resistono. Attraverso la loro resistenza sperano di introdurre un nuovo fattore dentro un’equazione rimasta a lungo distorta, in gran parte controllata da Israele e dai suoi alleati occidentali.

Liberando i loro prigionieri, come risultato diretto della resistenza, i palestinesi sono in grado di influenzare i risultati.  Significa che sono agenti politici; di fatto, attori politici che possono ridefinire del tutto le regole del gioco.

I palestinesi affrontano con intensità la questione dei prigionieri, come parte di una più ampia campagna di lotta di liberazione. Chi riesce a liberare 100 o 7000 detenuti crea un precedente storico, che potrebbe liberare l’intero popolo palestinese.

Israele è pienamente consapevole del potente significato simbolico dei prigionieri, infatti arresta i palestinesi come espressione di autorità e controllo su ogni aspetto della vita palestinese. 

Sebbene alcuni detenuti palestinesi siano considerati, nella visione di Israele, “security prisoners”, molti di loro sono stati arrestati per semplici post sui social media, per lo status di WhatsApp o addirittura senza alcun motivo.

Molte donne palestinesi sono state imprigionate per aver fatto visita alle famiglie di altri prigionieri, o per aver pianto la morte di giovani palestinesi uccisi da Israele. 

Israele ha arrestato queste donne in base allo stesso motivo per cui il ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, ha bandito il diritto dei palestinesi di celebrare la libertà dei propri figli.

Nello specifico, Israele vuole controllare ogni aspetto della vita dei palestinesi: le loro azioni, reali o simboliche, ma anche la loro rabbia, la loro gioia e qualsiasi altra emozione.

Quando i palestinesi vengono rilasciati attraverso lo scambio di prigionieri, si presentano orgogliosi, escono dalle celle israeliane a testa alta, nonostante i numerosi ostacoli affrontati, consapevoli delle restrizioni e della ferma volontà di Israele di tenerli tutti prigionieri. Per i palestinesi questa è una vittoria impareggiabile.

Quindi no, questo non è un gioco di numeri. Sebbene ogni individuo palestinese sia importante, sia quelli uccisi a Gaza, che quelli tenuti prigionieri nelle carceri israeliane, per i palestinesi tutto è collegato a un unico progetto chiamato liberazione.

È per questa ambita libertà collettiva che i palestinesi hanno combattuto, generazione dopo generazione, nonostante il prezzo della morte, della detenzione e della prigionia perpetua.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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