
La Nakba non è mai finita, è una campagna lunga 77 anni per distruggere il popolo palestinese. Questo è Israele: un esperimento genocida straniero, volto all’annientamento completo di un popolo indigeno.
Quando pensiamo alla Nakba, ovvero alla pulizia etnica della Palestina, spesso ci concentriamo solo sul 1948. Oggi, alcuni collegano gli eventi successi dopo il 7 ottobre 2023 a questo crimine storico orrendo. Eppure, per la popolazione rifugiata di Gaza, la Nakba non è mai finita.
In un certo senso, la Striscia di Gaza rapresenta ciò che la Nakba è stata ed è tuttora. È un piccolo territorio nato dalla Nakba. Sebbene Gaza City esista da migliaia di anni, il territorio che oggi chiamiamo Striscia di Gaza esiste solo da 77 anni.
Nel 2022, ho intervistato due sopravvissute alla Nakba. Una era Nazmiya Abdelfattah Khalil Mezher, espulsa dal suo villaggio di Khulda nel 1948, e l’altra Mariam Shaheen, costretta a fuggire dal villaggio di Zakariya. Sebbene entrambe fossero anziane e spesso si ripetessero, un tema comune che hanno evidenziato è stato quello degli stupri, delle torture e dei massacri.
Nazmiya ha raccontato che suo padre decise di restare nel villaggio di Khulda, mentre lei, sua madre e i fratelli fuggirono verso l’ignoto e furono infine aiutati dalle Nazioni Unite. Ricordava una discussione scoppiata quando suo padre voleva restare, mentre sua madre insisteva nel lasciare tutto per evitare un massacro come quello di Deir Yassin.
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Sia Nazmiya che Mariam mi hanno parlato dello stupro di donne durante il massacro di Deir Yassin, dove milizie sioniste uccisero almeno 107 civili palestinesi. In totale, circa 15.000 palestinesi furono uccisi durante la pulizia etnica, e oltre 750.000 furono costretti ad abbandonare le proprie terre.
Perché mi concentro sulle interviste a Nazmiya e Mariam? Perché raccontano le tattiche usate da 77 anni a questa parte dalle forze sioniste contro i palestinesi. Temi ricorrenti come la violenza sessuale, l’assassinio di civili come forma di intimidazione, e le torture come strumento di umiliazione, sono sempre stati usati per spingere centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case. Ogni anno, la stessa storia, solo con intensità diverse.
A livello personale, le interviste con queste sopravvissute alla Nakba hanno toccato una corda particolare quando le ho riascoltate per scrivere questo testo, perché somigliano in modo impressionante alle conversazioni quotidiane che ho con i miei familiari di Gaza.
Spesso fatico a trattenere le lacrime quando mia suocera parla di Gaza. Quando descrive le strade dove è cresciuta, i murales sui muri, la vista del mare, il miglior bayara della zona, gli alberi, i frutti e gli animali, o i parenti ormai defunti, lo fa come se tutto esistesse ancora.
“A Gaza abbiamo…” è spesso l’inizio di una conversazione di un’ora, in cui racconta di una bevanda che prendeva quando faceva caldo, un dolce durante il Ramadan, o un albero da frutto nel cortile della casa della sua infanzia. Le sue descrizioni dipingono un quadro vivido e offrono uno scorcio dei ricordi che conserva.
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Eppure, nella mia mente si affaccia sempre un pensiero: ciò che descrive è andato per sempre, bombardato e cancellato dall’esistenza. Anche se so che un giorno tutto sarà ricostruito e la terra tornerà ai suoi legittimi proprietari, non posso fare a meno di sentire l’ingiustizia subita.
A volte mia moglie scoppia in lacrime dicendo che riesce ancora a ricordare gli odori di Gaza, che sogna spesso la casa dove viveva suo nonno. Tutti questi ricordi e sensazioni rimasti impressi nella sua mente, ma ora presenti come cicatrici, perché nulla sarà più come prima.
E loro non sono originari di Gaza, sono rifugiati, le loro famiglie furono espulse dai villaggi nel 1948, condannati a vivere a pochi chilometri da quella terra appartenuta a loro per generazioni, ma a cui è vietato il ritorno, mentre coloni da ogni parte del mondo costruiscono nuove case in stile americano accanto alle rovine di ciò che un tempo era.
Qual è la differenza tra la Nakba del 1947-49 e quella di oggi? Non è forse una pulizia etnica di massa, che utilizza la minaccia di massacri, stupri e torture come arma contro i civili per costringerli a fuggire? Forse oggi la scala della Nakba è più vasta, ma le ferite sono sempre le stesse.
La Nakba non è solo un numero di persone espulse o uccise, è la cancellazione dei ricordi, lo smantellamento di tutto ciò che è familiare. Lascia le sue vittime con solo odori, sensazioni e immagini nella mente, a sostituire l’esistenza fisica dei luoghi dove sono cresciute.
Quello che fa la Nakba è trasformare l’ospedale dove sei nato, la strada dove sei cresciuto, la prima volta che hai mangiato il tuo piatto preferito, o il luogo del tuo matrimonio, in scenari di atrocità.
“Non si sono mai fermati, pensi che siano cambiati?”
Parlando con il Palestine Chronicle a condizione di anonimato, per timore di ritorsioni contro i suoi familiari, una donna del campo profughi di Jabaliya ha raccontato com’era la vita negli anni Settanta e Ottanta nella Striscia di Gaza. Ricordiamo che in quel periodo non esistevano ancora Hamas né i gruppi di resistenza islamica. Prima degli Accordi di Oslo – firmati tra l’OLP e Israele tra il 1993 e il 1995 – Gaza era sotto pieno controllo militare israeliano.
“Quando crescevamo, non ci era permesso costruire case alte; tutti questi edifici alti sono recenti, perché prima di Oslo l’occupazione doveva approvare ogni permesso”, ha spiegato. Ha anche raccontato che negli anni ’70 l’intero lato est del campo di Jabaliya fu oggetto di ordini di demolizione: “ordinarono semplicemente alla gente di andarsene e lo distrussero”.
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Ha aggiunto che le forze di occupazione sparavano regolarmente a civili a caso, incluso a membri della sua famiglia. Una volta presero un bambino e lo portarono al checkpoint militare, dove lo picchiarono così brutalmente che, quando riportarono il suo corpo al campo più tardi quel giorno, la pelle si staccava mentre i familiari tentavano di togliergli la camicia insanguinata.
All’epoca, qualunque simbolo nazionale o foto di leader palestinesi come Yasser Arafat poteva causare l’arresto, anche dei bambini. Inoltre, in qualunque momento, gli israeliani potevano decidere, per “motivi di sicurezza”, di occupare una casa o demolirla.
Nel 1949 emersero i primi casi di atrocità contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza, incluso all’inizio di agosto di quell’anno, quando si riportò che soldati israeliani rapirono due rifugiati palestinesi, uccisero l’uomo e stuprarono a turno la donna prima di giustiziarla. L’anno seguente emersero altri due casi simili: palestinesi rapiti, violentati e poi assassinati nella zona di demarcazione intorno a Gaza.
Oltre a questi casi terrificanti di violenza sessuale, i palestinesi che cercavano di tornare ai loro villaggi venivano uccisi e trattati come “infiltrati” dal neonato regime sionista. Tra il 1952 e il 1953 vi furono frequenti incursioni in Gaza, con decine di morti palestinesi ogni volta. Durante il periodo noto come gli “anni delle guerre di confine”, furono uccisi migliaia di palestinesi.
Nel 1967, Israele occupò tutta la Palestina, le Alture del Golan siriane e il Sinai egiziano, espellendo altre 350.000 persone. Prima di allora, l’Egitto governava Gaza, ma nemmeno gli egiziani furono risparmiati dagli attacchi israeliani. Nel 1955, Israele attaccò un campo militare egiziano, uccidendo 36 soldati e due civili palestinesi.
In risposta agli anni di attacchi israeliani contro i civili di Gaza, nell’agosto 1955 un gruppo di combattenti della resistenza palestinese attraversò la barriera di separazione e attaccò soldati e coloni israeliani, uccidendo 5 soldati e 10 coloni.
Come ha scritto Joseph Massad in un articolo per Middle East Eye nel dicembre 2023, Benjamin Netanyahu non è stato il primo leader israeliano a evocare il riferimento ad “Amalek” per giustificare lo sterminio di civili a Gaza.
Infatti, quando Israele attaccò l’Egitto e Gaza nel 1956, il suo primo ministro David Ben Gurion giustificò l’aggressione proclamando che “le schiere di Amalek” stavano cercando di distruggere lo Stato israeliano. Oltre a molte altre atrocità, le forze israeliane radunarono e giustiziarono fino a 500 palestinesi a Gaza, in un massacro di civili.
Tutte queste atrocità si sono verificate ben prima del 7 ottobre 2023 e non rappresentano eccezioni. Le demolizioni di case, gli ordini di espulsione, le esecuzioni, i bombardamenti, la violenza sessuale e i rapimenti sono tattiche usate dal regime israeliano fin dalla sua nascita.
Basta scegliere un anno qualunque nella storia del conflitto, e troverete un’atrocità commessa contro i palestinesi. Nel caso di Gaza, essa è l’incarnazione di ciò che è la Nakba: la stragrande maggioranza dei suoi abitanti sono rifugiati, stipati in un’area densamente popolata, tutti con il sogno di tornare nelle loro terre, da Haifa fino al Naqab.
Eppure, l’entità sionista non ha mai permesso loro nemmeno di vivere a Gaza. Ha continuato ad aggredirli, espellerli, disumanizzarli e ora tenta di sterminarne così tanti da costringerli ad andarsene. La Nakba non è mai finita, è una campagna lunga 77 anni per distruggere il popolo palestinese. Questo è Israele: un esperimento genocida straniero, volto all’annientamento completo di un popolo indigeno.
(The Palestine Chronicle)
