Perché le principali città europee stanno boicottando l’Apartheid israeliano

La sindaca di Barcellona Ada Colau annuncia che la metropoli europea sospenderà tutti i rapporti istituzionali con Israele. (Photo: Lyle Hausman, Supplied)

By Ramzy Baroud

Una serie di eventi iniziati a Barcellona, ​​in Spagna, a febbraio, che hanno poi raggiunto Liegi, in Belgio, e Oslo, in Norvegia, ad aprile, hanno inviato un forte messaggio a Israele: il movimento palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni è vivo e vegeto.

A Barcellona, la sindaca della città ha annullato un accordo di gemellaggio con la città israeliana di Tel Aviv. Non si è trattato di una decisione impulsiva, anche se Ada Colau è ben nota per le sue posizioni di principio su molte questioni. È stato il risultato di un processo pienamente democratico, avviato da una proposta presentata dai partiti di sinistra al consiglio comunale.

Poche settimane dopo la decisione, un’organizzazione legale filo-israeliana nota come Lawfare Project (Progetto Legale) ha annunciato la sua intenzione di intentare una causa contro Colau perché, a loro avviso, “ha abusato della sua autorità”. Voleva comunicare un messaggio ad altri consigli comunali in Spagna e nel resto d’Europa, che ci sarebbero state gravi ripercussioni legali per il boicottaggio di Israele. Tuttavia, con grande sorpresa dell’organizzazione, e di Israele, altre città hanno deciso di procedere spedite verso altre procedure di boicottaggio.

L’amministrazione di Liegi non ha cercato di nascondere le ragioni della sua decisione. Il consiglio comunale, è stato riferito la scorsa settimana, aveva deciso di boicottare lo Stato di Israele a causa del suo regime di “Apartheid, Colonizzazione e Occupazione militare”. Quella decisione è stata il risultato di un voto a maggioranza nel consiglio, a ulteriore riprova del fatto che una posizione di moralità a favore della Palestina sia pienamente conforme ai processi democratici.

Oslo, poi, è un caso particolarmente interessante. Fu proprio lì, nel 1993, che il “processo di pace” portò agli Accordi di Oslo, che finirono per dividere i palestinesi, dando a Israele la copertura politica per continuare le sue pratiche illegali e affermare di non avere controparti nel perseguire la pace.

Ma la città di Oslo non si limita più ai vuoti slogan del passato. La scorsa settimana il suo consiglio comunale ha approvato un decreto che boicotta l’importazione di merci dai Territori Palestinesi conquistati da Israele nel 1967. La capitale norvegese boicotterà anche le imprese israeliane coinvolte nello sfruttamento delle risorse in Cisgiordania e Gaza.

Nel giugno dello scorso anno, il governo norvegese ha dichiarato la sua intenzione di negare l’etichetta “Made in Israel” alle merci prodotte negli insediamenti israeliani illegali nei Territori Occupati. Sebbene questi insediamenti siano illegali secondo il diritto internazionale, all’Europa non dispiaceva fare affari, anzi, affari redditizi, con queste colonie. Nel novembre 2019, tuttavia, la Corte di Giustizia Europea ha deciso che tutti i beni prodotti nelle “aree occupate da Israele” dovevano essere etichettati come tali, in modo da non fuorviare i consumatori. La decisione della Corte è stata una versione blanda di ciò che i palestinesi si aspettavano: un boicottaggio completo, se non di Israele nel suo insieme, almeno dei suoi insediamenti illegali.

Tuttavia, la decisione ha comunque sortito un effetto. Ha fornito un’ulteriore base giuridica per il boicottaggio di Israele, conferendo così potere alle organizzazioni della società civile pro-palestinesi e ricordando a Tel Aviv che la sua influenza in Europa non è così illimitata come vorrebbe credere.

Il massimo che Israele ha potuto fare in risposta è stato rilasciare dichiarazioni rabbiose, insieme ad infondate accuse di antisemitismo. Nell’agosto 2022, il Ministro degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt ha chiesto un incontro con l’allora Primo Ministro israeliano Yair Lapid durante la sua visita in Israele. Lapid rifiutò. Non solo tale arroganza ha fatto poca differenza per la posizione della Norvegia sull’Occupazione Israeliana della Palestina, ma ha anche incentivato gli attivisti pro-palestinesi ad essere ancora più attivi, portando alla decisione di Oslo della scorsa settimana.

Il movimento BDS ha spiegato il significato della decisione di Oslo: “La capitale della Norvegia ha annunciato che non commercializzerà beni e servizi prodotti in aree occupate illegalmente in violazione del diritto internazionale”. In pratica, ciò significa che la “politica di approvvigionamento della città escluderà le società che contribuiscono direttamente o indirettamente all’impresa di insediamenti illegali di Israele, un crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale”.

Tenendo conto di questi rapidi sviluppi, il Lawfare Project dovrà ora ampliare le sue cause legali per includere Liegi, Oslo e un elenco sempre crescente di consigli comunali che stanno attivamente boicottando Israele. Ma anche in questo caso non ci sono garanzie che i risultati di tale contenzioso aiuteranno in alcun modo la causa di Israele. In realtà, è più probabile accada il contrario.

Ne sono un esempio le recenti decisioni delle città tedesche di Francoforte e Monaco di Baviera di cancellare i concerti della leggenda del rock filo-palestinese Roger Waters. Francoforte ha giustificato la sua decisione definendo Waters “uno dei più noti antisemiti al mondo”. Questa assurda e infondata accusa è stata respinta a titolo definitivo da un tribunale amministrativo tedesco, che il mese scorso si è pronunciato a favore di Waters.

Infatti, mentre un numero crescente di città europee si schiera con la Palestina, coloro che si schierano con l’Apartheid israeliano trovano difficoltà a difendere o addirittura a mantenere la propria posizione, semplicemente perché le prime si fondano sul diritto internazionale, mentre i secondi si basano su contorte e convenienti interpretazioni dell’antisemitismo.

Cosa significa tutto questo per il movimento BDS?

In un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Policy lo scorso anno, Steven Cook è giunto alla frettolosa conclusione che il movimento BDS aveva “già perso” perché, secondo la sua deduzione, gli sforzi per boicottare Israele non avevano avuto alcun impatto “nei corridoi del governo”.

Sebbene il BDS sia un movimento politico soggetto a errori di valutazione, è anche una campagna popolare che lavora per raggiungere fini politici attraverso cambiamenti costanti e misurati. Per avere successo nel tempo, tali campagne devono prima coinvolgere la gente comune nelle strade e gli attivisti nelle università, nei luoghi di culto, ecc., attraverso strategie pianificate e a lungo termine, esse stesse ideate da collettivi e organizzazioni della società civile locale e nazionale.

Il BDS continua ad essere una storia di successo e le ultime decisioni prese in Spagna, Belgio e Norvegia attestano il fatto che gli sforzi comuni portano risultati.

Non si può negare che la strada da percorrere sia lunga e ardua. Avrà sicuramente i suoi colpi di scena, con svolte e battute d’arresto occasionali. Ma questa è la natura delle lotte di liberazione nazionale. Spesso hanno un costo elevato e richiedono un grande sacrificio. Ma con la resistenza popolare interna e il crescente sostegno internazionale e la solidarietà all’estero, la libertà palestinese dovrebbe, di fatto, essere possibile.

Leggi l’originale inglese qui

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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