Nessun altro posto dove andare – I rifugiati di Rafah chiedono al mondo di intervenire

Scene da un campo per sfollati a Rafah, nel sud di Gaza. (Foto: Mahmoud Ajjour, Palestine Chronicle)

By Abdallah Aljamal

Il Palestine Chronicle ha parlato con alcune delle oltre 1,4 milioni di persone attualmente sfollate a Rafah.

Nonostante avvertimenti internazionali contro un’invasione su vasta scala a Rafah, lunedì Israele ha lanciato un’operazione militare nella zona orientale della città nel sud di Gaza.

Secondo testimoni oculari, le forze israeliane hanno lanciato volantini che ordinavano alle persone di lasciare la città.

L’esercito israeliano ha affermato, in un comunicato, che a circa 100.000 persone è stato chiesto di attenersi a un’evacuazione “temporanea” della parte orientale di Rafah.

Il Palestine Chronicle ha parlato con alcuni degli oltre 1,4 milioni di persone che attualmente trovano rifugio nell’area, dopo essere stati sfollati da altre zone della Striscia dilaniata dal genocidio.

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Il lancio dei volantini

“Diversi mesi fa siamo fuggiti dal campo profughi di Al Shati (Beach Camp), vicino a Gaza City, verso Al Nuseirat, nel centro della Striscia. Poi ci siamo trasferiti a Khan Yunis, e infine ci siamo stabiliti a Rafah, nel sud”, ha detto Renim Abu Asad al Palestine Chronicle.

“Abbiamo cercato di fuggire dai bombardamenti israeliani, ma i bombardamenti ci seguivano ovunque andassimo. Oggi l’occupazione ha lanciato volantini dal cielo, avvertendo che l’esercito stava per invadere alcune zone di Rafah. Non sappiamo dove andare, siamo stanchi di questa situazione”, ha continuato.

Renim ci ha raccontato di aver dato alla luce suo figlio durante la guerra.

“Abbiamo deciso di lasciare Gaza City quando i bombardamenti si sono intensificati. Abbiamo tre figli, e ci siamo trasferiti in un campo per sfollati in cerca di sicurezza, anche se non c’è luogo a Gaza dove sentirsi al sicuro. I bombardamenti ci prendevano di mira, ovunque andassimo”, ha detto.

Vivere in una classe

Anche Nidaa Abu Tuha è fuggita da Gaza City durante il primo mese del genocidio. Proprio come Renim, la sua prima destinazione è stata il centro di Gaza, poi Khan Yunis, infine Rafah.

“Vivo con i miei due figli a Rafah da quattro mesi. Siamo in un centro di accoglienza affiliato all’UNRWA, dormiamo in un’aula”, ci ha detto Nidaa.

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“In classe abbiamo spazio solo per due materassi. Dormiamo, mangiamo e trascorriamo tutto il nostro tempo lì”, ha detto.

“Ma ora, quando gli aerei israeliani hanno lanciato volantini che ci avvisavano dell’invasione di i Rafah, devo fuggire nella zona di Mawasi a ovest di Khan Yunis, o nei campi profughi al centro di Gaza”.

“Amo la mia città”

Umm Mohammad Qishta è originaria di Rafah, e il pensiero di lasciare la sua città le spezza il cuore.

“Sono nata e cresciuta qui, mi sono sposata e ho dato alla luce mio figlio nella città di Rafah. Amo moltissimo questa città, ogni piccola cosa”, ha detto Umm Mohammad al Palestine Chronicle.

“Non posso vivere lontano dalla mia città. Abbiamo sopportato i bombardamenti per sette mesi, la nostra scelta è stata di restare nella nostra terra, alla quale siamo ancora legati”.

Ora, però, Umm Mohammad sa di non avere altra scelta, deve lasciare la sua città.

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“Temo che l’occupazione ucciderà il mio bambino. In tutte le aree invase migliaia di persone sono state uccise, e tutte le case distrutte. Temiamo che questo sarà il destino anche di Rafah”, ha detto con voce tremante.

“Faccio appello alla comunità internazionale, alle grandi potenze, ai Paesi arabi e islamici. L’occupazione deve essere fermata, si deve impedire che vengano commessi ulteriori crimini contro esseri umani, pietre e alberi nella Striscia di Gaza. Possono bastare sette mesi di guerra, uccisioni, distruzioni e sabotaggi”.

 

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

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