Kuffiyeh e anguria: il significato dei simboli palestinesi

Perché i simboli palestinesi sono importanti? (Immagine: Palestine Chronicle)

By Ramzy Baroud & Romana Rubeo

Alcuni simboli, sebbene utilizzati anche prima dell’operazione Al-Aqsa, sono diventati molto più popolari dopo il 7 ottobre.

Chiunque condanni la Resistenza Palestinese, armata o meno, ha poca comprensione delle ramificazioni psicologiche della resistenza, come senso di emancipazione collettiva, onore e speranza.

La resistenza non è semplicemente un fucile, un lanciarazzi. Questi aspetti sono una manifestazione della resistenza e, se non fossero sostenuti da un forte sostegno popolare, difficilmente potrebbero avere grande impatto.

Tutte le forme di resistenza devono essere radicate nella cultura, questo aiuta a generare nuovi significati nel tempo.

Nel caso della lotta palestinese, il concetto di resistenza è multiforme, e radicato nella psiche collettiva da generazioni, il che consente di superare i confini ideologici e politici di varie fazioni e gruppi politici.

I simboli di questa resistenza, come ad esempio la kuffiyeh, la bandiera, la mappa e la chiave, sono la pura essenza di idee, credenze e valori profondi. Non importa quanto Israele abbia cercato di screditare, vietare o riproporre questi simboli: ha fallito, e continuerà a fallire.

All’inizio degli anni 2000, ad esempio, gli stilisti israeliani hanno creato una sorta di kuffiyeh israeliana. Le sciarpe israeliane, da lontano, sembravano simili a quelle tradizionali palestinesi, ma erano blu. Si può facilmente intuire  che la replica israeliana del simbolo nazionale palestinese, è un’abile manipolazione della Stella di David.

Potrebbe essere facilmente classificato sotto l’etichetta di appropriazione culturale, ma in realtà, è molto più complesso.

I palestinesi non hanno inventato la kuffiyeh, o hatta, uno dei foulard più comuni al collo, o sulla testa, in tutto il Medio Oriente. Hanno preso possesso della kuffiyeh, attribuendole significati più profondi: dissenso, rivoluzione, unità. L’importanza della kuffiyeh è stata in parte determinata dalle azioni e dalle restrizioni di Israele.

Dopo aver occupato la Palestina storica, vale a dire Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza, Israele ha immediatamente bandito la bandiera palestinese.  Quel divieto faceva parte di una campagna restrittiva molto più ampia, volta a impedire ai palestinesi di esprimere le proprie aspirazioni politiche, anche se simbolicamente.

Ma l’amministrazione militare israeliana non poteva impedire l’uso della kuffiyeh, un elemento fondamentale in ogni casa palestinese. 

Ben presto, la kuffiyeh è diventata il nuovo simbolo della nazione, e della resistenza palestinese, addirittura sostituendo la bandiera ormai proibita.

La storia della kuffiyeh risale a molti anni prima della Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste nel 1947-48. Esaminando tutte le rivolte nella storia moderna della Palestina, dallo sciopero del 1936-39, alla resistenza durante la Nakba, al movimento Fedayeen nei primi anni ’50, fino ad oggi, la kuffiyeh è rimasta probabilmente il simbolo palestinese più importante.

Tuttavia, la vera ascesa della kuffiyeh come simbolo di solidarietà globale con la Palestina e i palestinesi, è diventata un vero fenomeno internazionale durante la Prima Intifada del 1987. Fu allora che il mondo osservò, con stupore, una generazione armata solo di sassi fronteggiare il potente esercito israeliano.

Due tipi di simboli

Bisogna notare che, quando parliamo dei simboli culturali palestinesi, e per contrastare quelli israeliani, ci riferiamo a due tipi di simboli: uno è carico di rappresentazioni intangibili, sebbene essenziali – come, per esempio, l’anguria – e un altro di rappresentazioni tangibili, come ad esempio la Moschea Al-Aqsa.

La Moschea di Al-Aqsa è un simbolo della spiritualità, della storia, del nazionalismo palestinese e anche di una struttura fisica reale che si trova nella città palestinese occupata di Al-Quds, Gerusalemme est. 

Per molti anni Israele ha percepito la Moschea con un certo allarme, sostenendo che sotto ad Al-Aqsa, si troverebbero le rovine del Tempio ebraico, fondamentale per la spiritualità e la purificazione ebraica.

Pertanto, Al-Aqsa non può essere considerata un semplice simbolo, che svolge il ruolo di rappresentanza politica. Al contrario, è cresciuto in termini di significato profondo per la lotta palestinese. Non sarebbe un’esagerazione sostenere che la sopravvivenza di Al-Aqsa è direttamente collegata alla sopravvivenza stessa del popolo palestinese, inteso come nazione.

Secondo il famoso linguista svizzero Fernand De Saussure, ogni segno o simbolo è composto da un “significante”, ovvero la forma che assume il segno, e da un “significato”, il concetto che rappresenta.

Ad esempio, sebbene una mappa sia comunemente definita come la rappresentazione geografica di un’area o di un territorio, che mostra semplicemente le caratteristiche fisiche del luogo, può assumere un ‘significato’ diverso quando il territorio in questione è occupato, come nel caso della Palestina. 

La rappresentazione fisica dei confini della Palestina è diventata, nel tempo, un simbolo potente, che riflette l’ingiustizia inflitta al popolo palestinese nel corso della storia.

Lo stesso processo è stato applicato alle chiavi appartenenti ai rifugiati, vittime della pulizia etnica della Palestina da parte di Israele. Mentre i villaggi cessavano di esistere, la chiave restava come oggetto fisico, prima e dopo la Nakba. La casa e la porta forse non ci sono più, ma esiste una chiave fisica che ancora, simbolicamente, sblocca la dicotomia del passato, nella speranza di ripristinare, un giorno, anche la porta e la casa.

Considerato questo, il segmento di terra che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, ha smesso di essere solo sabbia, acqua, erba e pietre, ma è diventato la rappresentazione di ben altro.

Lo slogan “From the river to the sea” (“Dal fiume al mare”) non fa riferimento né alla topografia, né alla politica. Si basa sulla consapevolezza che un evento storico dirompente ha causato una quantità di ingiustizie, dolore e ferite a tutta la Palestina storica. 

Il confronto con questa ingiustizia deve avvenire attraverso un processo sano, che consenta alla terra ma, soprattutto agli abitanti nativi di quella terra, di ripristinare la loro dignità, i loro diritti e libertà.

Angurie e triangoli rossi

Alcuni simboli, sebbene utilizzati anche prima dell’inizio dell’operazione Al-Aqsa, sono diventati molto più popolari dopo il 7 ottobre. 

L’anguria, ad esempio, è stata utilizzata più volte nel corso della storia moderna della Palestina, in particolare quando Israele ha vietato il possesso e l’esposizione della bandiera palestinese.  Il frutto stesso, oltre a rappresentare la ricchezza della terra di Palestina, ha gli stessi colori della bandiera: nero, rosso, bianco e verde.

Un altro simbolo correlato è il triangolo rosso. Un piccolo triangolo rosso è apparso come strumento nei video prodotti dalle Brigate Al-Qassam, per indicare uno specifico obiettivo militare israeliano prima di venire colpito da un loro Yassin 105 o da un proiettile RPJ, o altro.

In breve, il triangolo rosso ha cominciato ad acquisire un nuovo significato, indipendentemente dal fatto che fosse intenzionale da parte di chi ha realizzato i video Qassam.

Il triangolo rosso, come simbolo, è stato collegato da alcuni alla bandiera palestinese, in particolare al triangolo rosso a sinistra, situato sopra il colore bianco, tra il nero e il verde. In verità, le origini del piccolo triangolo rosso non sono rilevanti. Come altri simboli palestinesi, anche questo ha il potere di accumulare nuovi significati nel tempo.

Cultura e Controcultura

Come nel caso della “kuffiyeh israeliana”, Israele ha sempre cercato di contrastare la cultura palestinese. Lo hanno fatto principalmente elaborando leggi per vietare ai palestinesi di comunicare attraverso i loro simboli culturali, e abbracciarli.

Un’altra tattica utilizzata da Israele è quella di rivendicare i simboli palestinesi come fossero i propri. Questo riguardo abbigliamento, cibo e musica. Quando Israele ha ospitato il concorso di bellezza di Miss Universo, nel 2021, i concorrenti sono stati invitati in una città araba beduina, Rahat. Ovviamente ignari del fatto che la cultura beduina, inclusi i vestiti ricamati, il cibo, la musica e le numerose manifestazioni artistiche, è una cultura esclusivamente araba palestinese, il concorso di bellezza ha espresso sui social media la grande eccitazione di “un giorno nella vita di un beduino” aggoungendo l’hashtag #visit_israel.

Tali episodi evidenziano il grado di inganno da parte di Israele, ma espongono anche, e in larga misura, il sentimento di inferiorità culturale di Israele. Facendo un rapido esame dei simboli israeliani, che si tratti della bandiera con la stella di David, del Leone di Giuda o di canti di guerra nazionali, come Harbu Darbu, sembrano in gran parte estratti da riferimenti biblici e atti di eroismo religioso risalenti a prima dell’esistenza  di Israele.

Mentre i simboli palestinesi riflettono il desiderio di tornare nella terra dei loro antenati, e di rivendicare i diritti e la giustizia a lungo negati, i simboli israeliani sembrano semplicemente avanzare rivendicazioni antiche, religiose, non verificabili. Se questo dimostra qualcosa, ci dice che, nonostante quasi un secolo di colonialismo sionista e 75 anni di esistenza ufficiale come Stato, Israele non è riuscito a connettersi alla terra di Palestina, alle culture del Medio Oriente, tantomeno a scolpire per sé un posto nella storia – ancora da scrivere – della regione, una storia che sarà sicuramente scritta dagli abitanti nativi di quella terra, il popolo palestinese.

 

– Il Dottor Ramzy Baroud è un giornalista, autore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, co-edito con Ilan Pappé, è “Our vision for liberation: engaged Palestinian Leaders and Intellectuals speak out”. Gli altri suoi libri includono “My father was a freedom fighter” e “The Last Earth”. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

– Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere, ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui

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