I segnali sono inequivocabili: La fiamma di Israele si sta spegnendo

Israel's opposition leader Yair Lapid and National Security Minister Itamar Ben-Gvir. (Design: Palestine Chronicle)

By Jeremy Salt

I segnali sono inequivocabili. Una società in guerra con se stessa e con i suoi nemici.

Ministri del governo che si maltrattano a vicenda. Manifestanti fascisti che cercano di fare irruzione nelle basi militari a sostegno dei soldati accusati di stupri e torture.

Soldati che si scontrano contro altri soldati che cercano di arrestarli. Coloni che si scontrano cotro i soldati. Rabbini nelle scuole religiose che dicono ai loro studenti di rifiutare il servizio di leva. Uccisioni di massa di uomini, donne e bambini palestinesi, sostenuti da gran parte dell’opinione pubblica.

Al di là dei confini, poi, uno Stato coloniale di coloni che è in guerra con gran parte del mondo, uno Stato responsabile della propria rovina che non fa che incolpare gli altri, un regime che ha appena assassinato l’uomo che rappresentava i palestinesi nei negoziati per il cessate il fuoco. In altre parole, un regime in fiamme.

Quando i sionisti arrivarono in Palestina avevano una scelta: la cooperazione o la conquista. Hanno scelto la conquista. Hanno scelto di schiacciare le popolazioni indigene fino a sopprimere ogni forma di resistenza. Incapace e non disposto a fare la pace, Israele ha messo in moto le ruote della propria distruzione.

Il libro di Ronan Bergman, ‘Rise Up and Kill First. The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations’ dà bene l’idea di come Israele abbia ucciso, con ogni mezzo, chiunque si sia messo sulla sua strada.

In realtà, molte delle vittime erano anche alla ricerca di una soluzione pacifica, ma questo le rendeva più pericolose perché era la terra che Israele voleva, tutta, non la pace. 

Lo sceicco Ahmad Yassin era uno di questi uomini. Lo era anche Ismail Haniyeh.

Per quanto riguarda le uccisioni individuali, agli istituti di ricerca è stato affidato il compito di ideare armi che andassero oltre la pistola e il coltello. Si trattava di omicidi spietati e senza pietà, le cui vittime includevano mogli e figli, oltre agli abitanti dei condomini presi di mira per i bombardamenti. 

Bergman sottolinea di tanto in tanto una discutibile preoccupazione per la vita dei civili non combattenti, ma quasi sempre lo sradicamento del nemico viene prima di tutto.

Nel secolo trascorso da quando i sionisti hanno lanciato la loro guerra, Israele ha sradicato i suoi nemici? Ha portato la pace? Ha reso Israele un luogo più sicuro per gli ebrei? Ha consolidato il posto di Israele nella comunità degli Stati mediorientali? È più sicuro? Ha arricchito lo status di Israele agli occhi del mondo? 

La risposta a tutte queste domande è “no”. Distruggendo gli altri, Israele ha infine indotto la propria crisi esistenziale. Ha deliberatamente eliminato tutte le opzioni di pace e non ha lasciato ai suoi nemici altra scelta se non quella di eliminare lo Stato sionista dal panorama del Medio Oriente. 

Un altro Stato, molto diverso, dovrà prendere il suo posto. 

Israele è odiato in tutto il mondo. Non si tratta di antisemitismo, ma della conseguenza delle azioni malvagie compiute da Israele nell’ultimo secolo. Le sue azioni hanno determinato questo sentimento, e nessun altro. Da tempo, è il punto di riferimento per la discriminazione razzista e la crudeltà senza rimorsi. È uno stato genocida, nato da un’ideologia genocida.

I suoi unici “amici” sono Stati con lo stesso background genocida. Ma non si può neanche parlare di vera amicizia quando si tratta di Israele. È una falsa amicizia, nata dal potere economico delle lobby israeliane che spingono i politici o li comprano. Sono arrivati al punto che non hanno nemmeno il coraggio di condannare il genocidio che viene commesso sotto i loro occhi. 

Ma il loro sostegno politico a Israele non significa che amino o si identifichino davvero con i suoi valori, come continuano a ripetere. Sono pienamente consapevoli dei crimini che sta commettendo, ma schierarsi con gli Stati Uniti è più importante che prendere una posizione morale contro il razzismo, l’apartheid, l’occupazione e l’omicidio di massa. 

Gli Stati Uniti sono l’unica ancora di salvezza di Israele. Senza il suo sostegno militare, economico e politico, che passa attraverso altri governi, non potrebbe sopravvivere. O crollerebbe o sarebbe costretto a fare una pace basata sulla fine di Israele come stato sionista, o a combattere fino alla fine e trascinare tutti gli altri con sé. L'”opzione Sansone” è l’arma usata per allarmare i suoi amici. “Non metteteci alla prova”, è il sunto. “Non si sa mai cosa potremmo fare”. Naturalmente, il riferimento è all’uso di armi nucleari.

Israele è nato dall’inganno e dalla doppiezza della Gran Bretagna e dei suoi protetti sionisti. La Dichiarazione Balfour aveva promesso una “patria per il popolo ebraico”, fermo restando che “nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”.

All’epoca, le “comunità non ebraiche”, descritte in modo negativo, costituivano il 90% della popolazione.

L’astuzia dei britannici era evidente nelle loro promesse agli “arabi”, rappresentati dal re Hussein dell’Hijaz e da suo figlio, l’emiro Faisal. Hussein si aspettava la proclamazione di un grande Stato arabo che si estendesse dal Mediterraneo orientale all’Iran e al Golfo Persico, ma nella sua corrispondenza con Hussein, Sir Henry McMahon, che negoziava per conto del governo britannico, fece riferimento solo all’indipendenza araba, non a uno o più Stati arabi.  

La formulazione era deliberatamente vaga, pensata per ingannare Hussein, e ha funzionato. Sulla base di ciò che pensava gli fosse stato promesso, Hussein alzò il tiro della rivolta araba contro i turchi ottomani. 

Nella loro corrispondenza, McMahon escluse specificamente alcuni territori dall’area riservata all’indipendenza araba. Questi territori, che si trovano a ovest di Damasco, Homs, Hama e Aleppo, “non possono essere considerati puramente arabi”. 

Ritenendo erroneamente che solo i musulmani potessero essere chiamati arabi, McMahon si riferiva alle comunità cristiane che vivevano in gran parte vicino o sulla costa siriana. 

Poiché la Palestina si trovava a sud di Damasco, non a ovest, e la Gran Bretagna non l’aveva esclusa specificamente dall’area di indipendenza araba, Hussein aveva il diritto di credere che anch’essa sarebbe caduta sotto il dominio arabo. 

Un’ulteriore malizia era evidente nella corrispondenza tra l’emiro Faisal, figlio di Hussein, e il leader sionista Chaim Weizmann. Sulla base dell’accordo che nulla sarebbe stato fatto per danneggiare gli interessi arabi, re Hussein disse che i coloni ebrei sarebbero stati i benvenuti in Palestina “come fratelli” che lavorano per il bene comune. 

Weizmann ribadì a Faisal che i coloni sionisti non avevano intenzione di istituire un proprio governo. Il loro accordo (3 gennaio 1919) fu scritto in inglese e tradotto in arabo da T.E. Lawrence.

In qualità di agente del governo britannico, che mostrava simpatia per i sionisti e per gli “arabi”, Lawrence stava facendo un triplo gioco. Non è chiaro quanto Faisal abbia realmente compreso dalla sua traduzione, ma comunque lo firmò.

L’accordo consentiva l’immigrazione ebraica in Palestina su larga scala a condizione che venissero tutelati i diritti dei “fittavoli e dei contadini” arabi (un’espressione che sa di sionismo) e che venisse mantenuto il controllo musulmano sui luoghi sacri musulmani. 

I coloni sionisti avrebbero assistito gli arabi palestinesi e contribuito allo sviluppo del futuro Stato arabo. Faisal accettò i termini della Dichiarazione Balfour, senza sapere quali fossero le reali intenzioni degli inglesi. 

L’accordo fu deciso sulla pelle dei palestinesi, quindi quello che avrebbero voluto rimane un punto irrilevante. Molto probabilmente avrebbero rifiutato del tutto l’insediamento sionista. 

L’accordo fu presentato alla Conferenza di pace di Parigi dalla delegazione sionista, ma senza l’avvertenza critica che Faisal aveva aggiunto. A condizione che agli arabi fosse concessa l’indipendenza, egli scrisse in questa avvertenza: “Concordo con questo accordo, ma se ci sarà la minima modifica o allontanamento (dai termini dell’indipendenza araba che gli era stato fatto credere fossero stati accettati dal Ministero degli Esteri britannico) non sarò vincolato da una sola parola del presente accordo”.

Non conoscendo l’inglese, i suoi consiglieri si stupirono che avesse firmato un accordo raggiunto da due stranieri, Lawrence e Weizmann, ma egli li rassicurò sul fatto che la sua firma era subordinata all’accettazione da parte del governo britannico dell’indipendenza araba entro confini che sia lui che suo padre davano per scontati comprendessero la Palestina.

McMahon non aveva escluso specificamente la Palestina nel suo accordo con Hussein perché la Gran Bretagna intendeva mantenere la Palestina e McMahon sapeva che senza la Palestina, Hussein non avrebbe mai accettato di lanciare una rivolta araba contro i turchi. 

Non passò molto tempo prima che Faisal si rendesse conto di essere stato ingannato. Dopo che i “sionisti radicali” – parole sue – si erano presentati alla conferenza di pace, disse a un membro della delegazione statunitense che i coloni sionisti erano molto diversi dagli ebrei già presenti in Palestina, “con i quali abbiamo potuto vivere e cooperare in termini amichevoli”.

Quasi senza eccezione, i nuovi coloni “sono venuti con uno spirito imperialista”. In un’intervista successiva, Faisal ha detto che se i sionisti volessero fondare uno Stato in Palestina, “prevedo pericoli molto seri… c’è da temere che ci sarà un conflitto tra loro e le altre razze”. 

I suoi timori sono stati confermati, ma Faisal non poteva immaginare il livello di morte e distruzione che i sionisti hanno portato in Palestina. 

Il Medio Oriente è stato portato sull’orlo di un ultimo confronto esistenziale con Israele che determinerà il futuro della regione per il prossimo secolo.

– Jeremy Salt ha insegnato presso l'Università di Melbourne, alla Bosporus University di Istanbul e alla Bilkent University di Ankara per molti anni, specializzandosi in storia del Medio Oriente. Tra le pubblicazioni più recenti figura il suo libro The Unmaking of the Middle East. Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle.

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