Jaber è stato testimone del cambiamento radicale avvenuto negli anni Novanta, e racconta al Palestine Chronicle che Israele ha imposto restrizioni ancor più severe negli ultimi mesi.
Il nome Hebron (Al-Khalil) evoca immediatamente la stretta militare che Israele impone da molti anni sulla città palestinese, per proteggere i 400 coloni ebrei che occupano illegalmente il cuore della città dagli anni ’90.
Da mesi, l’esercito israeliano impone ancor più restrizioni ai palestinesi di Al-Khalil, soprattutto nella Città Vecchia, per agevolare il passaggio dei coloni alla Moschea Ibrahimi.
Il territorio cittadino è diviso, frammentato da centinaia di posti di blocco militari; ne sono stati eretti 120 da Israele solo attorno alla moschea. I residenti devono attraversarli e sopportare ogni tipo di umiliazione, mentre i coloni ebrei hanno strade comode e non sono soggetti ad alcun tipo di molestia.
I coloni sostengono che il complesso dove si trova la Moschea Ibrahimi, che chiamano Grotta dei Patriarchi, appartenga a loro.
Nel 1994, un colono americano-israeliano di estrema destra, fece un massacro nella moschea durante il Ramadan, uccidendo 29 fedeli musulmani e ferendone altre decine. Da allora, i coloni ebrei hanno preso il controllo di metà del complesso.
Inoltre, Israele ha diviso la Città Vecchia, chiuso intere strade e più di mille negozi, un tempo considerati il cuore pulsante della città.
Molti palestinesi che vivevano nel centro della città sono stati costretti a lasciare le loro case, sotto minaccia armata da parte di soldati e coloni israeliani. Tutti quelli che si sono rifiutati di andarsene, nel corso degli anni sono stati sottoposti a ogni sorta di molestie, e pratiche razziste.
“Vivere all’inferno”
Diversi quartieri della città, come Tel Rumeida, Al-Shuhadaa Street, Al-Salaymeh e Jaber sono considerati un microcosmo del più ampio contesto di sofferenza vissuto dai palestinesi, a causa dell’occupazione israeliana.
Arif Jaber, 59 anni, ha vissuto nel quartiere di Jaber per tutta la sua vita.
Jaber è stato testimone del cambiamento radicale avvenuto negli anni Novanta, e racconta al Palestine Chronicle che Israele ha imposto restrizioni ancor più severe negli ultimi mesi.
“Questo quartiere era collegato alla Moschea Ibrahimi e noi andavamo lì prima del famoso massacro del 1994”, spiega Jaber. “C’erano molti negozi nella Città Vecchia, e la zona era piena di vita. Ormai è una città fantasma”.
In contemporanea all’aggressione contro la Striscia di Gaza, Israele ha aumentato la brutalità contro i palestinesi della Cisgiordania, rafforzando l’assedio e limitando ancora di più i loro movimenti.
Il quartiere di Jaber è abitato da 5.000 palestinesi, circondati da diversi posti di blocco militari israeliani. Non possono lasciare le loro case e nemmeno muoversi liberamente di notte, altrimenti rischiano arresti, abusi e persino torture.
Il “Checkpoint 160” è uno dei checkpoint militari israeliani più oppressivi.
I giovani ragazzi palestinesi quando lo attraversano sono sottoposti a ripetute perquisizioni, e sono spesso costretti a togliersi i vestiti e restare lì per ore, ammanettati, senza alcuna giustificazione da parte delle autorità israeliane.
“Siamo soggetti a coprifuoco senza alcun preavviso. Quando arriva la sera, i soldati israeliani cominciano a vagare per le strade del quartiere e, se vedono un palestinese, anche una donna, lo arrestano e lo maltrattano per ore”, prosegue Jaber.
Inoltre, i soldati israeliani, senza alcuna ragione, sparano regolarmente gas lacrimogeni e bombe assordanti contro le case, solo per divertimento. Quando vengono segnalati casi di soffocamento, alle ambulanze non è consentito entrare nel quartiere.
Le restrizioni alla circolazione valgono anche per i palestinesi che hanno bisogno di raggiungere gli ospedali. I soldati israeliani effettuano ispezioni approfondite e li molestano, impedendo alle ambulanze di trasportare pazienti e donne incinte in travaglio.
“È come vivere all’inferno. Durante il Ramadan è come se fossimo in prigione”, ci racconta Jaber.
“Non possiamo farci visita a vicenda, siamo costretti a rimanere a casa per la maggior parte del tempo, per evitare i soldati dell’occupazione, schierati in gran numero”.
L’obiettivo di Israele
I coloni ebrei di Hebron hanno inflitto ogni sorta di abuso ai residenti palestinesi, per costringerli ad andarsene e impossessarsi delle case rimanenti.
Hisham al-Sharbati è membro del Comitato di difesa di Hebron.
Racconta al Palestine Chronicle che Israele ha imposto uno stretto coprifuoco sulla, già sufficientemente limitata Città Vecchia, dall’inizio dell’aggressione contro la Striscia di Gaza, il 7 ottobre.
Di recenteme, l’esercito israeliano ha deciso che i residenti possono lasciare le loro case soltanto in orari specifici. Tuttavia, i palestinesi continuano a essere soggetti a vessazioni, da parte dei soldati e dei coloni dispiegati nella zona.
“Secondo le nuove norme imposte dall’esercito israeliano, gli abitanti di questa zona possono uscire di casa a una certa ora, ma non possono rientrare durante il giorno. Devono aspettare un’orario specifico la sera”, spiega al-Sharbati.
Gli ingressi alla Città Vecchia, che conducono alla Moschea Ibrahimi, sono tutti chiusi e solo i residenti delle case adiacenti possono entrare nel complesso. Anche loro sono sottoposti a ore di umiliazione ai checkpoint militari israeliani.
Inoltre, le autorità israeliane hanno iniziato a impedire ai palestinesi di utilizzare il cimitero, all’interno della Città Vecchia. I residenti sono costretti a ottenere un permesso speciale per poter seppellire i loro morti lì.
“Durante l’ultima festività ebraica, i coloni hanno attaccato un funerale palestinese, hanno picchiato le persone in lutto e le hanno scacciate, costringendole a cercare cimiteri alternativi fuori dalla Città Vecchia”, spiega al-Sharbati.
Il vero obiettivo di queste pratiche brutali è chiaro: Israele vuole costringere la popolazione palestinese a lasciare la propria città. Le famiglie che hanno deciso di restare in questa zona, tuttavia, rifiutano di arrendersi alle implacabili umiliazioni e restrizioni.
Sono determinati a restare, e a preservare l’originaria identità palestinese della città.
Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui.
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