Soma Baroud, medico e madre di Gaza, ha recentemente scoperto che la sua casa nell’area di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, è stata distrutta dall’esercito israeliano.
Per oltre dieci mesi, la dottoressa Baroud si era aggrappata alla speranza che un giorno la famiglia sarebbe stata riunita in quella casa, che aveva costruito e mantenuto insieme al marito, un professore universitario, per oltre 30 anni.
Con il marito ancora disperso, presumibilmente ucciso nei primi mesi di guerra, la dottoressa Baroud ha fatto tutto il possibile per proteggere l’abitazione la sua famiglia.
Ad agosto, tuttavia, l’esercito israeliano ha distrutto la casa di famiglia.
Riflettendo sulla loro perdita, lei e suo figlio Yazan hanno scritto queste parole.
Il mio cuore è spezzato
Di Soma Baroud
Dopo aver perso la mia casa, mi sono sentita distrutta. Umiliata. Non avevo mai provato questa sensazione prima.
Per mesi abbiamo aspettato che gli israeliani lasciassero Khan Yunis, per poter tornare subito a casa nostra. Ma ora non c’è più nessuna casa in cui correre. Le nostre mattine, che prima mantenevano una parvenza di ottimismo, ora sono vuote. Abbiamo perso tutto.
Mio figlio non avrebbe mai voluto lasciare la casa. Vi era molto legato. Il suo legame con quel luogo era diverso dagli altri. Si prendeva cura degli alberi ogni giorno, contando i giorni che mancavano alla raccolta delle olive e alla stagione dei datteri. Piantava menta e basilico. Proteggeva il raccolto dalle intemperie.
Quando è iniziata la guerra, ha fatto di tutto perché non fossi costretti a lasciare la casa, le capre, le galline e gli alberi. È riuscito persino a generare un po’ di elettricità con i pannelli solari e a prendere acqua corrente da una moschea vicina.
Ma quando l’esercito israeliano ha preso il controllo di Khan Yunis, non abbiamo avuto altra scelta che andarcene. Siamo tornati ogni volta che ne abbiamo avuto la possibilità, solo per vederla deteriorarsi, giorno dopo giorno: il cortile devastato dall’artiglieria israeliana, i rami di ulivo in frantumi, i polli e le capre ormai morti, le finestre e le porte rotte.
Ogni volta che tornavamo a casa, cadevo in una profonda depressione. Ma poi i miei figli mi ricordavano che tutto poteva essere ricostruito, finché la struttura rimaneva in piedi.
L’ultima volta che siamo tornati, l’abitazione era in pessimo stato. Le porte non c’erano più, le finestre erano completamente distrutte o rotte e persino i balconi erano crollati sotto il peso delle bombe. La nostra cucina era distrutta, i nostri vestiti erano stati tolti dagli armadi e fatti a pezzi. Non riuscivo a dormire, ma i figli continuavano a ricordarmi che dovevo essere grata, che la nostra perdita non era così grave come quella degli altri, che c’era ancora speranza.
Ripristinare la deterrenza psicologica – Torturare i palestinesi come ‘strategia sistematica’
Ma ora… Cosa posso dire? Il mio cuore è spezzato. Tutto è scomparso. Tre decenni di vita, di ricordi, di successi, tutto ridotto in macerie.
Questa non è una storia di pietre e cemento. È molto di più. È una storia che non può essere raccontata completamente, per quanto io possa scrivere o parlare a lungo. Sette anime hanno vissuto qui. Abbiamo mangiato, bevuto, riso, litigato e, nonostante tutte le difficoltà della vita a Gaza, siamo riusciti a ritagliare una vita felice per la nostra famiglia.
Qui abbiamo festeggiato compleanni e vacanze, rotto il digiuno durante il Ramadan e intrattenuto gli amici. Questo è lo stesso luogo da cui i nostri figli hanno completato gli studi, si sono distinti nelle università e da cui alcuni di loro sono partiti dopo aver celebrato il loro matrimonio. Alcuni di loro hanno avuto successo nella vita, altri ci stanno ancora provando, ma tutto è iniziato da qui, da questo cumulo di macerie e sogni infranti.
So che la vita non va sempre nel modo in cui pianifichiamo o speriamo. Ma dopo tutto questo, questa guerra orribile, il mio unico desiderio era di tornare a casa e dormire. Intendo dire dormire davvero, visto che non dormo da quasi un anno.
Avevo conservato tutti i ricordi dei miei figli. Ritagli di vecchi fogli con la loro calligrafia di bambini, vecchi disegni e persino pacchetti regalo di compleanni passati. Era tutto conservato lì, classificato, archiviato, custodito.
I dettagli della vita di mio marito, che è stato ucciso o è ancora disperso, solo Dio lo sa, erano tutti lì. Volevo che tutto rimanesse esattamente dove l’aveva lasciato prima della guerra.
Ho detto ai miei figli che, se dovesse accadere qualcosa, non dovranno togliere nulla di ciò che mi ricorda il loro padre. Voglio che li tengano esattamente come li aveva lasciati prima di andarsene.
Ora, anche tutto il resto è sparito.
Voglio un momento di tregua. Non so come fare.
Oh, mi si spezza il cuore…
Le case hanno un’anima
Di Yazan Baroud
Ho perso mio padre il 26 gennaio 2024. Non so cosa gli sia accaduto.
Quando siamo tornati a casa, dopo la prima invasione dell’esercito israeliano nel nostro quartiere (la città di Qarara, a est di Khan Yunis), l’abbiamo trovata in rovina, anche se i muri erano ancora in piedi.
Eravamo lontani da quasi un mese e mezzo, ed eravamo grati di essere a casa, nonostante i danni. “Alhamdulilah”, grazie a Dio, continuavamo a dire, perché il nostro destino era comunque migliore di quello di chi aveva perso tutto.
Ma l’esercito è tornato qualche settimana dopo, e siamo dovuti fuggire ancora una volta.Siamo tornati di nuovo, qualche settimana dopo, prima di essere costretti ad andarcene ancora una volta, al ritorno dell’esercito.
Una scena che continuava a ripetersi, mese dopo mese. Eppure, la casa restava in piedi. Sentivamo davvero che la nostra casa aveva qualcosa di speciale, perché era l’unica le cui mura erano in gran parte intatte, mentre la maggior parte del quartiere, anzi, della città era stata distrutta dall’aria o rasa al suolo.
Qualche settimana fa, mentre godevamo un raro momento di pace nella nostra casa, sono tornati gli aerei da guerra israeliani. Hanno bombardato una casa vicina piena di persone. Ci siamo precipitati a prestare soccorso, faticando a trovare qualcuno vivo, dato che la maggior parte dei residenti, in maggioranza donne e bambini, erano stati uccisi.
Alla fine è arrivata un’ambulanza. L’autista ci ha detto che non avrebbe trasportato martiri, ma solo feriti. Ha anche detto che c’erano nuovi ordini militari di evacuazione della città di Qarara. Era la settima volta dall’inizio della guerra che veniva emesso un ordine del genere.
Così siamo fuggiti di nuovo. Due settimane dopo l’ultima fuga, un amico mi ha detto che l’esercito israeliano aveva lasciato Qarara, quindi mi sono precipitato a casa, nella speranza che fosse ancora in piedi.
Volevo esserne sicuro, quindi l’ho raggiunta a piedi, camminando dal centro di Gaza verso sud. Le auto non potevano circolare perché l’esercito aveva distrutto tutte le strade.
Una volta raggiunto il nostro vecchio quartiere, mi sono perso. Non riuscivo a riconoscere nulla. Il paesaggio era completamente stravolto. Ho camminato in varie direzioni finché non ho trovato il punto in cui avrebbe dovuto sorgere la nostra casa.
“Dov’è la casa?”, continuavo a ripetere ad alta voce. Dopo essermi orientato tra la devastazione causata da Israele, ho trovato quel cumulo di macerie che è, o era, la nostra casa.
L’ho riconosciuta grazie a una piccola area nel cortile dove mio padre aveva piantato degli alberi di Natale. Nonostante fosse tutto distrutto, un alberello era ancora in piedi.
Ho pensato a mio padre. Ricordo il giorno in cui aveva piantato gli alberi. Ricordo l’emozione con cui seguiva la loro crescita nel tempo. Ho pensato a mia madre, ai miei fratelli, alla vita felice che avevamo un tempo e al futuro incerto che ci attende ora.
A salvarmi dai miei pensieri è stato un versetto del Corano, che benediceva
“Coloro che, quando sono colpiti da una calamità, dicono: Certamente ad Allah apparteniamo e a Lui (tutti) ritorneremo. Sono loro che riceveranno la benedizione e la misericordia di Allah. E sono loro che sono (giustamente) guidati”.
Quando ho iniziato a filmare la distruzione che ha colpito la nostra casa, mi sono venuti in mente dei versi da una vecchia poesia e, senza rendermene conto, ho iniziato a recitarli ad alta voce:
Non chiedete alla casa, chi vi ha abitato?
La porta, da sola, dovrebbe dirvi che i proprietari sono partiti.
Oh, voi che siete alla porta, bussate con gentilezza.
Perché coloro che un tempo vivevano qui non ci sono più.
Siate gentili nel bussare,
perché non ci sarà risposta. I cari se ne sono andati.
Siate cauti, perché non ci sono persone care in questa casa.
Non ferite il vostro palmo, perché la ferita di coloro che se ne sono già andati è già abbastanza profonda.
Oh, voi che bussate, se solo sapeste della nostra storia
Vi chiedereste: come ha fatto la porta a sopravvivere?
Siate gentili con questa casa e non risvegliate il suo dolore.
Perché anche le case hanno un’anima, proprio come le persone.
(The Palestine Chronicle)
Commenta per primo