I primi nemici: il mandato di Giosuè per il genocidio

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu fa riferimenti controversi ad Amalek. (Immagine: The Palestine Chronicle)

By Jeremy Salt

Secoli dopo, questo ordine di battaglia viene ripreso a Gaza, dove morte e distruzione includono l’uccisione deliberata di uomini e donne, bambini e neonati, anche attraverso fame e malattie.

L’utilizzo di Amalek, da parte di Benjamin Netanyahu, come metafora biblica per giustificare la distruzione di Gaza, ha attirato una condanna internazionale. Si tratta di una ricetta per il genocidio che, guardando agli ultimi cinque mesi, Israele ha “plausibilmente” portato a termine, secondo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ).

Nel deserto alla periferia della terra di Canaan, gli Amalechiti (i seguaci di Amalek, un capo tribù o clan di antico lignaggio biblico) furono i primi nemici degli Israeliti.

Furono sconfitti sotto il comando di Joshua Bin Nun. La distruzione degli Amalechiti servì da modello per lo spietato sterminio di tutti i nemici di Israele nella terra di Canaan, tra cui i Filistei.

Agli Israeliti fu comandato da Dio di spazzare via tutti dalla faccia della terra, di “distruggere totalmente tutto ciò che appartiene a loro, senza risparmiarli; uccidete uomini e donne, bambini e lattanti, bovini e pecore, cammelli e asini”.

Secoli dopo, questo ordine di battaglia è stato ripreso a Gaza, dove morte e distruzione includono l’uccisione deliberata di uomini e donne, bambini e neonati, anche attraverso fame e malattie.

La Torah è un testo morto per i non religiosi, un libro di miti, non di storia, senza alcuna rilevanza per la vita quotidiana, ma per i religiosi è una storia ancora viva e, per chi ha una mentalità messianica, un progetto per il presente e il futuro. Il collegamento è particolarmente rilevante negli Stati Uniti, dove una potente lobby cristiano-sionista veglia sugli interessi di Israele anno dopo anno.

Sebbene le radici del sionismo cristiano risalgano al XVI secolo, solo nel XIX secolo ha acquisito forza religiosa, sociale, umanitaria e politica. Basato sull’adempimento della verità biblica, il punto di partenza è il ritorno degli ebrei nella loro “antica patria”, e il punto finale la conversione di tutti gli ebrei al cristianesimo per il ritorno del Messia.

La perversa ragione per cui i sionisti cristiani sostengono Israele in tutto quel che fa, compreso il “plausibile” genocidio che sta mettendo in atto contro Gaza, è una convinzione evangelica: alla fine dei tempi gli ebrei non saranno più ebrei, ma si convertiranno al cristianesimo. Avvolto in un fervore religioso, questo sicuramente rappresenta l’apice dell’antisemitismo.

Il paradosso è che questa fede religiosa è più diffusa negli Stati Uniti che in Israele. Un sondaggio Gallup del 2021 ha mostrato che il 70% degli americani si identifica con una fede religiosa specifica, il 69% con il cristianesimo, protestante o cattolico, mentre il 21% ha affermato di non avere alcun credo.

Al contrario, un sondaggio condotto in Israele nello stesso anno, mostrava che il 45% degli intervistati affermava di non essere affatto religioso, mentre il 33% si definiva tradizionalmente religioso. Tuttavia, sono i piccoli partiti politici religiosi sionisti a fare affari, e a rompere gli accordi, nell’attuale clima politico.

Netanyahu detiene il potere solo grazie al loro sostegno. Ha parlato dei palestinesi come di Amalek, e la sua coalizione è ancora più brutalmente decisa a proseguire la distruzione di Gaza, e a compiere una pulizia etnica del suo popolo.

Lo stesso Netanyahu è un ebreo soltanto a livello culturale. L’osservanza religiosa formale non ha alcun ruolo nella sua vita, come non la aveva per Herzl, Weizmann o Ben-Gurion, ma la religione e i suoi simboli erano funzionali ai loro scopi.

Come modalità operativa nella campagna per conquistare la Palestina, i sionisti laici si sono rivolti al passato descritto nella Torah. Sapevano che gli arabi non avrebbero ceduto la loro terra. E si doveva togliergliela, non potevano esserci mezze misure: se le forze sioniste non fossero riuscite a conquistare quella terra immediatamente, avrebbero perso tempo e avrebbero dovuto attendere che si presentasse o creasse un’opportunità, ma l’obiettivo fin dall’inizio è sempre stato l’intera “terra di Israele”, non solo una parte di essa.

A questo punto il moderno legame con Joshua bin Nun è diventato centrale. Dopo la morte di Mosè, fu Giosuè che, dopo la sconfitta degli Amalechiti, condusse le tribù israelite a Canaan, descritto da Dio come “un paese dove scorre latte e miele” e che Giosuè, una delle 12 spie inviate nel “terra promessa”, aveva visto.

L’ingiunzione, contenuta nell’Esodo, di annientare gli Amalechiti fu trasmessa tramite Mosè: “Allora il Signore disse a Mosè: ‘Scrivi questo in un libro come memoriale e recitalo a Giosuè, Io cancellerò completamente Amalek sotto il cielo’”. Il messaggio è ripetuto nel Deuteronomio: “Cancellerai la memoria di Amalek sotto il cielo, non devi dimenticare”.

Il Libro di Giosuè ci racconta con quanta fedeltà Giosuè estese l’incarico divino a tutte le tribù, e ai re della terra di Canaan. Non distrusse solo Gerico, ma molte città, tra cui Ai, il cui sito archeologico si trova in Cisgiordania. Il re di Ai fu impiccato, 12.000 abitanti uccisi e Ai “bruciato, ridotto a un mucchietto di cenere”.

Altri cinque re – di Gerusalemme, Hebron, Jarmuth (vicino a Gerusalemme), Lachish (vicino a Gaza) ed Eglon (vicino a a Gaza), il villaggio in Iraq al Manshiyya (distrutto e sottoposto a pulizia etnica nel 1948) – unirono le forze per combattere gli Israeliti.

Dio rassicurò Giosuè: “Non aver timore di loro, poiché domani, a quest’ora, li consegnerò tutti morti davanti a Israele”. I cinque re furono trovati nascosti in una grotta. Furono fatte rotolare delle pietre all’ingresso per imprigionarli, poi furono portati fuori. Giosuè infine “li colpì, li uccise e li appese a cinque alberi”.

In tutto, gli Israeliti “colpirono” 31 re e presero le loro terre, che furono poi divise tra i vincitori. Quasi tutte le persone all’interno di questi regni vennero distrutte. Gerico era il modello: “sia uomo che donna, giovane e vecchio, bue e pecora e asino siano passati a fil di spada”.

Ci furono occasioni, tuttavia, in cui “tutti i bottini di queste città, e il bestiame, vennero presi dai figli d’Israele come preda; ma passarono ogni uomo a fil di spada finché non li ebbero distrutti, senza lasciar respirare alcuno». C’erano anche città che “rimasero ferme nella loro forza” e Israele non ne bruciò nessuna, “tranne Hazor; quella fece bruciare Giosuè”.

Venuti a conoscenza della sorte della gente di Ai, i Gabaoniti (attuale villaggio di Al Jib, vicino a Gerusalemme), fecero pace con Giosuè, a condizione che rimanessero tagliatori di legna e portatori d’acqua per gli Israeliti. Il parallelo con il destino sottomesso assegnato ai palestinesi nelle enclave “autonome” della Cisgiordania, assegnate loro nel “processo di pace” degli anni ’90, è inequivocabile.

Giosuè non è solo un capitolo dell’Antico Testamento, ma un modello spietato per i giorni nostri, lo stiamo vedendo a Gaza. In seguito all’attacco militare di Hamas del 7 ottobre, il leader dei coloni della Cisgiordania e Ministro delle Finanze del governo Bezalel Smotrich ha dichiarato:

“Quando Joshua Bin Nun entrò nella terra inviò tre messaggi ai suoi abitanti: chi vuole accettare il nostro governo lo accetterà, chi vuole andarsene se ne andrà, chi vuole combattere combatterà. La base della sua strategia era: siamo qui, siamo arrivati, questo è nostro. Anche adesso sono aperte tre possibilità. Non esiste una quarta possibilità. Quelli che vogliono andarsene, e ci saranno, li aiuterò. Quando non avranno speranza né futuro, se ne andranno. Come fecero nel 1948”.

Attraverso massacri,  fame e sfollamenti, questa è una dichiarazione abbastanza esplicita riguardo le intenzioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania. 

A Smotrich è stata data anche autorità sulle “questioni civili” in Cisgiordania, basata sull’espansione degli insediamenti, nonostante le obiezioni degli Stati Uniti, e sul continuo strangolamento della vita palestinese. Ha definito nazisti tutti i palestinesi della Cisgiordania, ha difeso la violenza dei coloni e l’incendio delle città. Ha detto a un membro palestinese della Knesset: “È un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non ti abbia buttato fuori nel 1948”.

Joshua non è solo il modello per Smotrich, per i coloni armati e per i “giovani delle colline” della Cisgiordania. La bonifica della terra di Canaan è servita da ispirazione specifica per il primo “Primo Ministro” della potenza occupante, David Ben-Gurion, ex Gruen, un colono polacco proveniente dalla piccola città di Plonsk.

Per Ben-Gurion gli “arabi” non erano altro che un ostacolo da rimuovere. Era anche profondamente razzista nei confronti dei mizrahim – gli “ebrei orientali” – descrivendoli come ebrei “primitivi”, “reietti” e “al di sotto degli standard” rispetto agli ebrei aszhkenazi come lui che erano “venuti qui come europei”.

Giunto in Palestina nel 1906, Ben-Gurion – a quel tempo ancora Gruen – descrisse “gli arabi” che remavano la sua barca al largo della costa di Giaffa, per portare a terra i passeggeri, come “bestie umane” dagli occhi predatori e “visi completamente selvaggi”. Un’ulteriore prova che la definizione di Yoav Gallant dei palestinesi come “animali umani” non è arrivata dal nulla, quanto il 7 ottobre.

Negli anni a venire la conversione degli esseri umani palestinesi in animali umani, o “bestie su due gambe” di Menahim Begin, persino in insetti, è diventato un ritornello costante nelle bocche dei politici, dei comandanti dell’esercito e dei rabbini israeliani.

Secondo lo scrittore Ahad Ha’am, che aveva visitato la Palestina all’inizio del XX secolo, i coloni sionisti trattavano gli indigeni con “ostilità e crudeltà”, oltre a picchiarli con “vergognosa crudeltà” per poi vantarsene.

Così doveva essere: per prendere la Palestina i sionisti non avrebbero potuto trattare i palestinesi come esseri umani con uguali diritti, o addirittura come esseri umani, e questo atteggiamento è continuato fino ai giorni nostri. Niente altro spiega più chiaramente il motivo della crudeltà spietata inflitta ai palestinesi di Gaza.

Sulla sua scrivania Ben-Gurion conservava un passaggio dell’Esodo: “Non li scaccerò davanti a te in un solo anno, affinché la terra non diventi desolata e le bestie selvagge non si moltiplichino a tuo danno. Li scaccerò poco a poco, finché tu sarai numeroso e avrai il paese».

Moshe Dayan, Ministro della “difesa” durante l’attacco del 1967 all’Egitto e alla Siria, una volta descrisse Ben-Gurion come Mosè, e se stesso come Giosuè. Rachel Havrelock in “The Joshua generation: conquest and the Promised Land” (Critical Research on Religion, 3, 2013) ha illustrato come Joshua sia stato ispirazione e modello per Ben-Gurion.

Havrelock scrive che il moderno militarismo israeliano “risuona” con Joshua e crea il “lessico del nazionalismo ebraico”. Per i coloni religiosi della Cisgiordania, in particolare, il libro di Giosuè è un “manuale di istruzioni”.

Nel 1958, Ben-Gurion formò un gruppo di studio biblico, di cui facevano parte le élite politiche, militari e legali, nonché archeologi e studiosi della Torah. Il suo scopo era quello di “promuovere l’unità nazionale attraverso paradigmi biblici e un’identità collettiva” con Giosuè da lui scelto come primo soggetto.

Come scrive il professor Havrelock: “Attraverso il Giosuè, gli israeliani intendono la conquista e l’insediamento attraverso una rievocazione del passato biblico”. Ben-Gurion riteneva che nessuno avesse interpretato Giosuè meglio dell’IDF nel 1948: soldati e civili insieme vivevano “il mito di Giosuè”. Ben-Gurion interpretò storia, strategia, conquista e colonizzazione attraverso il libro di Giosuè.

Le conquiste di Joshua furono riassunte da un gruppo di studio, con Yigael Yadin, archeologo e figura militare di spicco per la pulizia etnica della Palestina del 1948, che si riferiva specificamente alla città di Hazor, descritta nel libro di Joshua come “capitale di tutti quei regni”.

Secondo Yadin, “una città cananea colta, una città fortificata, con santuari – sia Lachish, Bethel o Hazor – cessa improvvisamente di mostrare segni di vita. Dal punto di vista archeologico è un fatto rilevante che tutte le città cananee vennero distrutte nello stesso periodo. Le città furono demolite, bruciate e i loro abitanti non tornarono più per ricostruirle. Ognuno di loro è stato distrutto, reso povero e miserabile”. La conclusione che colpisce qualsiasi lettore, è che potrebbe parlare della Nakba nel 1948.

La conquista di tutte le terre lasciate in eredità agli Israeliti tramite Giosuè, non fu però completa. L’“uccisione dei giganti” da parte di Giosuè si interruppe bruscamente a Gaza, Gat e Asdod, dove rimasero gli amalechiti.

Giosuè venne rimproverato da Dio, verso la fine della sua vita: “Sei vecchio, hai superato la giovinezza, e gran parte della terra resta da conquistare, cioè quella dei cinque signori filistei di Gaza, Ashdod, Askelon, Gath ed Ekron. “

Il professor Havrelock indica l’ultima parte del Libro di Giosuè come prova del fatto che Giosuè si era in qualche modo ammorbidito nell’ atteggiamento verso i Cananei conquistati. Rimase una popolazione stabile, ma allo stesso tempo, in contrasto con la tesi del professor Havrelock, gli Israeliti furono ammoniti: se si fossero sposati con i Cananei e fossero entrati nelle loro vite, sarebbero rimasti per loro “lacci e trappole, flagelli della vostra vita, spine nei fianchi e negli occhi, finché non scomparirete da questo paese che il Signore vostro Dio vi ha dato». Pertanto, sebbene tollerati, questi cananei erano ritenuti pericolosi e dovevano essere tenuti a distanza di sicurezza.

La generosità di Dio era stata grande: “Vi ho dato una terra per la quale non avete faticato, città che non avete costruito eppure abitate in esse; delle vigne e degli oliveti che non avete piantato, ma dalle quali vi nutrite». Ancora una volta, la descrizione si adatta alle città, ai paesi e ai villaggi costruiti da altri, e alla grande quantità di terreni agricoli piantati da altri che vennero poi distrutti, edificati o sequestrati nel 1948.

Ci sono variazioni nell’estensione del territorio assegnato agli israeliti. Nel libro di Giosuè andava “dal deserto al Libano, al grande fiume, il fiume Eufrate, tutto il paese degli Ittiti e fino al grande mare (il Mediterraneo) che al tramonto del sole sarà la tua costa”. Poiché l’impero ittita comprendeva quasi tutta l’Anatolia e la costa dell’Egeo, a sud di Biblo, questo era un compito arduo anche per lo stesso Giosuè. Al momento della sua morte gli Israeliti avevano conquistato solo una piccola parte della terra promessa da Dio.

Non furono solo i nemici di Ben-Gurion nel campo “revisionista” di Herut/Likud, ma anche Ben-Gurion stesso a prendere spunto dal “manuale di istruzioni” di Joshua Bin Nun. Come indicano le osservazioni di Smotrich, Joshua è un modello per gli attuali sionisti religiosi allineati con Netanyahu.

Sono diversi i siti indicati come luogo di sepoltura di Giosuè. La tradizione ebraica sostiene che fu sepolto a Timnath-sera, quello che oggi è il villaggio palestinese di Kifl Haris, nel nord della Cisgiordania. Il sito archeologico di Kirbat Tibneh, nel nord della Cisgiordania, è considerato un’altra opzione possibile.

Il sito di Kifl Haris è ora un maqam (santuario) musulmano, risalente all’epoca del sultano Salah al Din Ayyoubi (“Saladino”) del XII secolo, e dedicato a Giosuè e al servitore di Salah al Din, Jawhar bin Abdullah. Si ritiene che Kifl Haris sia anche il luogo di sepoltura del padre di Giosuè e di Caleb, una delle spie inviate nella “terra promessa”. Decine di migliaia di ebrei israeliani si recano in pellegrinaggio a Kifl Haris ogni aprile, per commemorare la morte di Giosuè.

Alla fine di dicembre dello scorso anno, il santuario era ricoperto di graffiti pro-Hamas. Yossi Dagan, capo del “consiglio regionale della Samaria”, dall’interno del santuario dichiarò: “Siamo nella tomba di Joshua Bin Nun, il primo capo di gabinetto ebreo della nazione di Israele. Qui ci sono le nostre radici, le fondamenta della terra di Israele, qui ci sono le radici sulle quali è stato fondato lo Stato di Israele e in questi giorni, mentre stiamo combattendo un nemico barbaro e crudele che massacra donne e bambini, non c’è da meravigliarsi se lo stesso nemico cerca di danneggiare i nostri luoghi santi. Noi siamo un pugno di ferro e sconfiggeremo questo barbaro nemico”.

Per la cronaca, alla luce delle osservazioni di Dagan, a parte il continuo massacro di civili a Gaza, risulta che 113 siti religiosi siano stati danneggiati o distrutti durante l’attuale attacco. Includono un minimo di 70 moschee (più di 300 secondo Hamas) e tre chiese, tra cui San Porfirio, una delle chiese più antiche al mondo, parzialmente distrutta lo scorso ottobre da un attacco missilistico che ha ucciso 16-18 palestinesi rifugiati al suo interno.

Le moschee includono la Grande Moschea Omari, costruita nel VII secolo sul sito di una chiesa bizantina del V secolo, che si ritiene costruita sulle rovine del tempio filisteo di Dagon, demolito da Sansone. La moschea è stata completamente distrutta da un attacco missilistico israeliano lo scorso dicembre. 

Se Israele si avvicinasse a una teocrazia fascista, in cui i sionisti religiosi potrebbero avere il sopravvento, una lettura letterale dei comandi di Dio trasmessi da Mosè e Giosuè potrebbe avere un ruolo ancora maggiore nell’arena politica.

La “questione palestinese” non riguarda solo la Palestina, ma tutta la “terra d’Israele” ancora non redenta, come promesso nella Torah. Si estende ben oltre la Palestina. Gran parte è irraggiungibile, ma altre zone (il Libano meridionale, la Siria e l’altra sponda del fiume Giordano, per cominciare) sono vulnerabili.

Rifiutandosi di definire i confini – cosa che Israele continua a fare – Ben-Gurion ha tenuto lo sguardo puntato sull’opportunità principale. Come dichiarato una volta, “il nostro movimento è massimalista. Tutta la Palestina non è il nostro obiettivo finale”.

 

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

– Jeremy Salt ha insegnato presso l'Università di Melbourne, alla Bosporus University di Istanbul e alla Bilkent University di Ankara per molti anni, specializzandosi in storia del Medio Oriente. Tra le pubblicazioni più recenti figura il suo libro The Unmaking of the Middle East. Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle.

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