Al-Aqsa: Storia di un’invasione annunciata

Le forze di occupazione israeliana fanno irruzione nella moschea di Al-Aqsa. (Photo: via Social Media)

By Luca Grandicelli

Se Israele decidesse di oltrepassare definitivamente quella sottile linea invisibile che perimetra lo status quo, le conseguenze potrebbero essere incalcolabili, considerando soprattutto che il popolo palestinese, ormai, non ha più nulla da perdere.

È ancora notte nella moschea di Qibli, a Gerusalemme Est il 5 maggio scorso, e decine di fedeli sono riuniti per la Salat al-Fajr, la consueta preghiera del mattino che si svolge poco prima dell’alba.

Siamo in pieno Ramadan e tra i presenti in molti sono impegnati nell’Itikaf, una sorta di ritiro spirituale che consiste nel chiudersi all’interno del perimetro sacro della moschea isolandosi completamente dal mondo esterno; lasciare fuori ogni sorta di distrazione e dedicarsi unicamente alla contemplazione e adorazione di Allah. Un momento importante che coinvolge, non solo emotivamente, l’intera comunità. Anche perché quest’anno il mese sacro dell’Islam coincide con la Pasqua ebraica e quella cristiana, pertanto, essere qui rappresenta non solo una virtù ma soprattutto un orgoglio. E nel silenzio che ammanta le sale come una coperta invisibile, ogni palestinese sa di trovare il conforto che merita. 

Ma a un certo punto, qualcuno inizia a distrarsi, si odono delle grida e rumori provenire distintamente dall’esterno. Tempo di capire cosa sta succedendo, che una serie di boati squarciano il silenzio: la polizia israeliana fa irruzione e in pochi istanti si scatena il panico. Diversi gruppi di agenti in tenuta anti sommossa iniziano a picchiare selvaggiamente i fedeli con i manganelli, mentre a poca distanza vengono lanciati gas lacrimogeni e bombe sonore. Nella ressa e nel caos che ne scaturisce, qualcuno riprende tutto con un cellulare e le immagini fanno il giro del mondo.  

Le violenze continuano per l’intera giornata protraendosi fino a pomeriggio inoltrato, quando gli ultimi fedeli ancora presenti all’interno del complesso di Al-Aqsa, di cui fa parte la moschea di Qibli, vengono aggrediti una seconda volta, spinti fuori dalla zona che in Italia conosciamo meglio con il nome di “Spianata delle Moschee”, e impedito loro di pregare.

Quando il sole tramonterà, il bilancio della Mezzaluna Rossa palestinese sarà di 12 persone ferite, di cui tre trasportate d’urgenza in ospedale. I medici che sono accorsi sul luogo affermeranno poi in un comunicato stampa che le forze di occupazione israeliane hanno più volte impedito loro di raggiungere la zona interessata per soccorrere i feriti, e che secondo alcuni funzionari locali, sono almeno 400 i palestinesi arrestati che rimarranno in custodia. 

 “Stavamo svolgendo l’itikaf perché è il Ramadan”, ha raccontato all’emittente qatariana Al Jazeera, Bakr Owais, uno studente di 24 anni che è stato detenuto. “L’esercito ha rotto le finestre superiori della moschea e ha iniziato a lanciarci granate stordenti… Ci hanno fatto sdraiare a terra, ammanettato a uno a uno e portato fuori. Durante tutto questo periodo hanno continuato a imprecare contro di noi. È stata davvero una cosa barbara, sono sconvolto”. 

Poco più in là, un’anziana donna racconta ai microfoni dell’agenzia di stampa Reuters quei minuti concitati: “Ero seduta su una sedia a recitare [il Corano]. Hanno lanciato granate stordenti e una mi ha colpito al petto”. Poi scoppia a piangere. 

Reagire d’istinto 

Da un punto di vista storico, la notizia non è nuova. Soprattutto alla luce dei continui scontri tra palestinesi e le forze israeliane che occupano la città vecchia di Gerusalemme. Giusto la settimana precedente, un giovane dottore di 26 anni, Muhammad Al-Osaibi, è stato ucciso dalla polizia all’ingresso del complesso di Al-Aqsa scatenando una pesante ondata di proteste. Anche se stavolta, stando a quanto riportato dalla giornalista Natasha Ghoneim di Al Jazeera, le incursioni militari sarebbero state anticipate da una serie di appelli sui social media in cui si invitavano tutti i fedeli musulmani a recarsi nella moschea per “difenderla dagli occupanti”.

La notizia che girava da un po’ di giorni era infatti che alcuni gruppi di estremisti ebrei avrebbero avuto intenzione di sgozzare una capra all’interno del perimetro sacro come parte di un antico rituale della Pasqua ebraica. In aggiunta a questa provocazione, si era inoltre previsto che un certo numero di coloni avrebbe visitato l’area durante l’orario di visita abituale dei non musulmani. Ma si sa, se qualcosa può andare storto ci andrà comunque. Così alla fine la storia ha preso la piega peggiore, e da questo momento in poi, una cosa è a tutti subito chiara: ormai da qui, non si torna più indietro. 

A questo punto, a Gerusalemme qualcuno inizia ad avvertire puzza di bruciato e prova subito a spegnere le fiamme facendo uscire un comunicato stampa della polizia nel quale si afferma che il raid si è reso necessario per neutralizzare un gruppo di agitatori mascherati barricato all’interno della moschea e confuso tra i fedeli. 

“Quando la polizia è entrata, sono state lanciate pietre e sparati fuochi d’artificio dall’interno della moschea da parte di un folto gruppo di agitatori”, si legge nella dichiarazione, aggiungendo inoltre che un agente è stato ferito a una gamba e che in base a un accordo precedente con le autorità del complesso di Al-Aqsa, nessuno avrebbe dovuto passare la notte all’interno della moschea durante il mese di Ramadan; di aver cercato “pacificamente” di convincere la gente ad andarsene, ma quando ciò non è avvenuto, gli agenti si sono visti costretti a forzare l’ingresso. 

A dare manforte e autorevolezza alle parole della polizia, arriva anche il commento del premier Benjamin Netanyahu che dichiara di stare cercando di calmare la situazione e che “Israele è impegnato a mantenere la libertà di culto, la libertà di accesso a tutte le religioni e lo status quo, e non permetterà agli estremisti violenti di cambiarlo”. 

Intanto il primo ministro dell’Autorità Palestinese, Mohammad Shtayyeh, stigmatizza l’accaduto come “un grave crimine contro i fedeli”, aggiungendo che non devono chiedere il permesso a Israele per pregare, perché è un loro diritto. “Al-Aqsa è per i palestinesi e per tutti gli arabi e i musulmani, e la sua irruzione è una scintilla di rivoluzione contro l’occupazione”.

Le sue parole cadono come macigni e innescano la miccia: già nella notte tra mercoledì e giovedì, 12 missili partono dai territori della Striscia di Gaza verso il sud di Israele, mentre il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, dichiara in un comunicato che “gli attuali crimini dell’occupazione israeliana nei confronti dei fedeli musulmani sono violazioni senza precedenti che non passeranno impunite”. 

Nei giorni immediatamente successivi, mentre le immagini del raid fanno il giro di tutto il mondo, le autorità palestinesi, in collaborazione con l’Egitto e la Giordania, convocano una riunione d’emergenza della Lega Araba per affrontare la questione. Il segretario generale Ahmed Aboul Gheit fa sapere: “Se non si mette fine agli approcci estremisti che guidano la politica del governo d’Israele, si verificheranno sempre più conflitti con i palestinesi”. Intanto la Giordania, che ha il ruolo di custode dei luoghi santi cristiani e musulmani di Gerusalemme in base a un accordo di status quo in vigore dal 1967, condanna fermamente l’attacco, mentre il ministero degli Esteri egiziano richiede l’immediata cessazione dell’evidente assalto di Israele ai fedeli musulmani.  

Non un caso isolato 

Arrivati a questo punto, è necessario ampliare lo spettro della notizia e dargli un contesto più ampio. Il raid del 5 maggio non è infatti che l’ultimo di una lunga lista di episodi di violenza avvenuti all’interno del complesso di Al-Aqsa. Nel maggio 2021, sempre durante il periodo del Ramadan, le forze israeliane attaccarono i fedeli utilizzando gas lacrimogeni, proiettili rivestiti di gomma e granate stordenti, causando centinaia di feriti e suscitando una forte condanna a livello internazionale. Durante il corso di quest’anno, più di 300 palestinesi sono stati finora arrestati (molto spesso solo a scopo preventivo, senza accusa, né processo) e almeno 170 feriti durante le varie operazioni di polizia militare.

Il tutto mentre si registra un aumento significativo degli episodi di violenza da parte dei coloni nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove molte famiglie arabo-palestinesi hanno affrontato la minaccia di essere sfrattate con forza dalle proprie case secondo un modus operandi che richiama terribilmente quello già vissuto durante la “Nakba” (“La Catastrofe” – N.d.A.), quando più di 700.000 arabi palestinesi furono cacciati dalle proprie abitazioni senza potervi mai più fare ritorno, dopo la proclamazione dello Stato di Israele del 1948. 

Dall’inizio del 2023, 22.456 coloni israeliani hanno fatto irruzione nella Spianata delle Moschee (5.800 solo nel mese di maggio / Fonte: Al-Qastal/Quds News Network) sostenuti da forze israeliane ben armate che facilitano le loro intrusioni ostacolando il movimento dei fedeli palestinesi, aggredendoli ed espellendoli con la forza dall’area (Fonte: Mo3ta/Quds News Network).

Gli scontri a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania hanno poi raggiunto il culmine con l’operazione “Shield and Arrow” nella Striscia di Gaza a partire dal 10 maggio di quest’anno, nella quale sono stati uccisi 256 palestinesi, tra cui 66 bambini e più di 1.900 persone sono rimaste ferite, stando a quanto riportato dal Ministero della Sanità di Gaza. 

Eppure, al netto delle statistiche e dei comunicati stampa, sembra delinearsi una volontà ben precisa da parte di Israele di appropriarsi del complesso di Al-Aqsa; un interesse che sembra essere motivato non solo dalle continue azioni di intimidazione e provocazione nei confronti dei fedeli musulmani, ma anche dalla stessa politica, pesantemente polarizzata a destra e su posizioni estremiste come non lo è mai stata prima d’ora. Ma per provare a tracciare uno schema e capire cosa sta succedendo, dobbiamo però fare un passo indietro e (ri)leggere la storia.  

La premessa storico-religiosa 

Il complesso di Al-Aqsa si trova su un altopiano naturale nella zona della Città Vecchia di Gerusalemme Est, conquistato da Israele durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967 e successivamente annesso con un’operazione mai riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale. Conosciuta anche come Al-Haram Al-Sharif, il Nobile Santuario, la moschea di Al-Aqsa è considerata il terzo luogo più sacro nell’Islam, dopo la Kaaba nella Grande Moschea della Mecca e la Moschea del Profeta nella Città di Medina, e ha un importante significato per i fedeli musulmani poiché viene menzionata nel Corano come il luogo in cui il Profeta Maometto ascese al Cielo in un viaggio notturno chiamato Isra e Mi’raj. Si tratta di un simbolo di connessione tra il cielo e la terra e rappresenta un luogo di adorazione e di incontro con Dio.

Ma il “Nobile Santuario” ha anche un importante significato storico e politico: rappresenta infatti la presenza e la difesa del controllo islamico sulla città di Gerusalemme, un aspetto che ha contribuito a renderla simbolo di identità e unità per i musulmani di tutto il mondo. Nel corso degli anni poi, la gestione e la sicurezza dell’area interna, e perimetralmente esterna del complesso, sono spesso state oggetto di tensioni tra le autorità israeliane e i fedeli musulmani. Organizzazioni internazionali e gruppi per i diritti umani monitorano attentamente la situazione nella zona al fine di preservare la libertà di culto e promuovere la convivenza pacifica tra le diverse comunità, mentre le tensioni e i conflitti attorno alla moschea sono seguiti attentamente dalla comunità musulmana internazionale per preservare l’accesso e la sicurezza dei visitatori. Al-Aqsa è dunque un luogo di profonda spiritualità, di rilevanza storica e politica, che rappresenta una connessione diretta con la religione e la storia dell’Islam. 

Ma per gli ebrei, la questione è ben diversa. Il luogo dove oggi sorge la Spianata delle Moschee è, secondo la tradizione biblica, il “Monte del Tempio”, ovvero il sito in cui si crede sorgesse il Tempio di Gerusalemme, costruito da re Salomone nel X secolo a.C. e poi distrutto dai Babilonesi nel 586 a.C. Successivamente ricostruito nel V secolo a.C. fu nuovamente raso al suolo dai Romani nel 70 d.C. durante la prima guerra giudaica e ai cui piedi gli ebrei sono soliti pregare, lungo il muro Occidentale (conosciuto più comunemente come “Muro del pianto”). Il Monte del Tempio rappresenta dunque il luogo in cui si concentrano molte delle speranze e aspettative messianiche del popolo d’Israele e non a caso sono in molti a desiderare la ricostruzione del Terzo Tempio sul sito originale. Risulta pertanto evidente come l’intera area dove oggi sorge il complesso di Al-Aqsa sia divenuta il punto focale dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est e, più in generale, della Cisgiordania. 

 “Gerusalemme è forse la questione più scottante che potrebbe scatenare violenze su vasta scala”, ha affermato lo scorso anno Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research, in un’intervista ad Al Jazeera. “Abbiamo già assistito a ciò in passato”, ha aggiunto. 

E in effetti il “Nobile Santuario” rappresenta per i palestinesi uno dei pochi simboli nazionali su cui mantengono un certo grado di controllo e che sentono l’urgenza di difendere, in virtù del timore di una graduale invasione da parte di gruppi ebraici, come è accaduto alla Moschea Ibrahimi (Grotta dei Patriarchi) di Hebron, dove metà della struttura è stata trasformata in una sinagoga dopo il 1967. Ciò che preoccupa maggiormente le autorità palestinesi, infatti, sono le crescenti frequenze con cui le attività di movimenti di estrema destra israeliani mirano alla demolizione delle strutture islamiche all’interno del complesso di Al-Aqsa per sostituirle con un tempio ebraico. E a giudicare dalla piega che hanno preso ultimamente le cose, si tratta di un’ipotesi tutto sommato plausibile. 

 ‘Morte agli arabi’ – Israele verso il suprematismo razziale 

Quanto avvenuto il 5 maggio va inquadrato da un punto di vista più ampio che include quello che sembra essere un piano ben preciso da parte di Israele di riappropriarsi di tutta Gerusalemme, considerata da sempre parte nativa dello stato ebraico. Sotto l’endorsement Trump, che il 6 dicembre 2017 ne riconobbe ufficialmente il ruolo di unica e vera capitale (annunciando persino il trasloco di uffici e personale dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa), il suo completo controllo è ancora di più al centro delle mire del governo Netanyahu. E portavoce assoluto di questa linea politica è senza dubbio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, astro nascente della destra nazionalista israeliana che già all’inizio della settimana antecedente agli scontri di maggio, aveva incoraggiato gli ebrei a visitare il complesso di Al-Aqsa in occasione dell’imminente festività della Pasqua ebraica. 

Rappresentante della Otzma Yehudit (che in italiano significa “Potere Ebraico”), formazione politica incentrata sul conservatorismo sociale e con rigide idee sull’approccio alla colonizzazione della Palestina, la sua stessa nomina a Ministro della Sicurezza è di per sé un chiaro messaggio di cambio di rotta rispetto al passato, essendo senza dubbio l’espressione della versione più nazionalista ed estremista che la Knesset israeliana abbia mai avuto da 75 anni a questa parte. Anche se, a guardare gli eventi degli ultimi anni, le manifestazioni di Ben-Gvir sono tutto sommato in linea con la politica di Israele nei confronti dei territori occupati. Il neoeletto Ministro della Sicurezza è tra l’altro tristemente famoso per le sue dichiarazioni shock in cui di certo non cela sotto il velo della diplomazia il suo personale disprezzo nei confronti del popolo palestinese e, più in generale, verso gli arabi. 

Sue le dichiarazioni, immediatamente dopo i fatti di maggio, per le quali sarebbe tempo di “mozzare teste a Gaza”. “Il governo di cui faccio parte” – afferma infatti Ben Gvir– “deve rispondere con potenza ai lanci di razzi di Hamas. Essi richiedono una reazione che vada oltre il bombardamento di dune di sabbia e di luoghi disabitati”. 

Poi, verso la fine del mese di marzo di quest’anno, ha chiesto al governo di approvare la costituzione di una Guardia nazionale composta da almeno 2.000 membri, che risponderà direttamente a lui. Milizia da costituire per affrontare il «crimine nazionalista», il «terrorismo» e «ripristinare il governo dove necessario». In pratica, sorvegliare gli arabo israeliani e i palestinesi cittadini di Israele che Ben-Gvir considera, senza mezzi termini, un «nemico interno». 

Il 3 gennaio 2023 ha replicato la storica e provocatoria passeggiata di Ariel Sharon nella Spianata delle Moschee, mentre il 18 maggio scorso ha partecipato alla controversa “Marcia delle bandiere”, dove si è mostrato in pubblico sfilando per i quartieri arabi di Gerusalemme, mentre tutto intorno decine di coloni ed ebrei ultra ortodossi, scortati dall’esercito, istigavano liberamente alla violenza intonando cori del tipo “morte agli arabi”, oppure “arriverà una seconda Nakba”, indirizzandosi a giornalisti e palestinesi che li osservavano e filmavano attoniti. 

Una mossa strategica per il controllo totale? 

Fin qui, tutte le mosse di Israele sembrano inquadrarsi nel piano di alimentare, sostenere e preparare un assedio per la conquista dei luoghi chiave dell’identità ebraica, primo fra tutti, il complesso di Al-Aqsa e l’area di 350.000 metri quadri su cui sorge. È plausibile, infatti, che si stiano disponendo sulla scacchiera le pedine necessarie per sferrare il colpo decisivo, appropriandosi militarmente dell’area e cacciare congiuntamente all’esproprio totale del quartiere di Sheikh Jarrah, gli arabo-palestinesi da Gerusalemme Est.  

Le conseguenze di una tale decisione sarebbero senza dubbio devastanti, con ripercussioni che oltrepasserebbero i confini dello stato ebraico e andrebbero a innescare una situazione di conflitto estesa in tutto il mondo musulmano. Ma c’è da dire che Israele ha ampiamente dimostrato in passato di non temere né le tensioni interne, né possibili ritorsioni da parte dei suoi vicini, in particolar modo l’Egitto e la Giordania, né tantomeno un’eventuale coalizione militare che già una volta, durante la guerra dei sei giorni, dovette riconoscere la supremazia militare e strategica dell’esercito di David.

Certo, supporre una mossa del genere solo sulla base delle dichiarazioni di Ben-Gvir e della polarizzazione a destra della Knesset, potrebbe sembrare avventata, e forse lo è. Se non fosse che proprio il 24 maggio scorso, il governo israeliano ha approvato un nuovo bilancio che prevede enormi finanziamenti statali agli ebrei ultraortodossi, promuovendo di fatto il nuovo schema politico dalla matrice marcatamente nazionalista e suprematista. 

Per il momento, la grande Cupola dorata della Roccia è ancora lì, e su di lei si concentrano le speranze dell’intera comunità musulmana internazionale. Se Israele decidesse di oltrepassare definitivamente quella sottile linea invisibile che perimetra lo status quo, le conseguenze potrebbero essere incalcolabili, considerando soprattutto che il popolo palestinese, ormai, non ha più nulla da perdere.

- Luca Grandicelli è un autore ed esperto di tecnologie digitali. Lavora da molti anni nel mondo della comunicazione e dell’editoria web. Da sempre appassionato di esteri e Medioriente, scrive anche di cultura, società e diritti umani sul suo blog personale: https://avamposti.substack.com Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle Italia. 

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