By Ramzy Baroud
Israele vuole porre fine alla Resistenza, ma la determinazione del popolo palestinese per la conquista della propria libertà è decisamente maggiore.
Gli eventi drammatici e sconvolgenti che si sono verificati in Palestina, a partire dal 7 ottobre, hanno colto di sorpresa molte persone, ma non gli osservatori attenti.
Pochi si aspettavano che i combattenti palestinesi si sarebbero paracadutati nel sud di Israele il 7 ottobre e nemmeno che, invece di catturare un singolo soldato israeliano come nel 2006, centinaia di israeliani, tra soldati e civili, si sarebbero ritrovati prigionieri nella Gaza assediata.
La ragione della “sorpresa”, tuttavia, è la stessa per la quale Israele è ancora sotto shock collettivo: è la tendenza a fare troppa attenzione a discorsi politici e analisi di intelligence che riguardano Israele, e i suoi sostenitori, trascurando del tutto la lettura palestinese.
Per una comprensione migliore, partiamo dall’inizio.
La scintilla
Siamo entrati nel 2023 con dati deprimenti, e previsioni oscure riguardo quel che attendeva i palestinesi nel nuovo anno.
Poco prima dell’inizio dell’anno, l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Tor Wennesland, aveva dichiarato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite:
“Il 2022 è stato l’anno più violento, dal 2005. Troppi palestinesi sono rimasti uccisi e feriti”.
La cifra, 171 morti e centinaia di feriti solo in Cisgiordania, non ha ricevuto alcuna attenzione dai media occidentali. Le vittime si registravano tra i civili palestinesi e i movimenti di Resistenza.
Mentre la rabbia e le richieste di giustizia crescevano anche tra i palestinesi comuni, la leadership ha continuato a svolgere il suo ruolo tradizionale, provando a smorzare le richieste della resistenza, e continuando a lavorare sul “coordinamento della sicurezza” con Israele.
Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, 88 anni, ha perseverato nell’utilizzo del linguaggio stantio sulla “soluzione a due Stati” e sul “processo di pace”, ma, al contempo, ha intensificato la repressione contro chiunque osasse opporsi alla sua inefficace leadership.
I palestinesi sono rimasti indifesi e soli di fronte a un governo israeliano di estrema destra, con un programma esplicito che mirava a distruggerli, ad espandere gli insediamenti illegali, a impedire ogni possibilità di creazione dello stato palestinese, e a quel punto si sono visti costretti a sviluppare le proprie strategie difensive.
È cresciuto, in potere e fascinazione, un gruppo di Resistenza composto da varie fazioni, la Fossa dei Leoni, apparso per la prima volta a Nablus nell’agosto 2022. Altri gruppi, vecchi e nuovi, sono emersi in tutta la Cisgiordania settentrionale, con l’ obiettivo di unire i palestinesi attorno a un’agenda non faziosa e, in definitiva, a produrre una nuova leadership palestinese in Cisgiordania.
Queste novità hanno suonato come campanelli d’allarme in Israele. L’esercito di occupazione si è subito mosso per reprimere la nuova ribellione armata, con continue irruzioni nelle città e nei campi profughi, nella speranza di trasformare la nascente rivoluzione in un altro tentativo fallimentare, impossibilitato a cambiare le condizioni della Palestina occupata.
Le più sanguinose incursioni israeliane si sono verificate a Nablus il 23 febbraio, a Gerico il 15 agosto e, soprattutto, nel campo profughi di Jenin.
L’invasione israeliana di Jenin del 3 luglio ricorda, in termini di vittime e grado di distruzione, l’invasione dell’aprile 2002.
Il risultato, però, non è stato lo stesso. Nel 2002 Israele aveva invaso Jenin, insieme ad altre città palestinesi e campi profughi, riuscendo a schiacciare la resistenza armata per anni a seguire.
Questa volta, invece, l’invasione israeliana ha innescato una ribellione ancora più ampia nei territori occupati, creando un’ulteriore spaccatura nel rapporto, già deteriorato, tra i palestinesi e l’Autorità Palestinese guidata da Abbas.
Pochi giorni dopo la conclusione dell’attacco israeliano al campo, Abbas è apparso con migliaia di soldati dichiarando ai rifugiati, ancora in lutto, “La mano che spezzerà l’unità del popolo, verrà tagliata dal braccio”.
Ciononostante, mentre la ribellione popolare continuava a crescere in Cisgiordania, i rapporti dell’intelligence israeliana hanno iniziato a parlare di un piano elaborato dal vicecapo di Hamas, Saleh Arouri, per innescare un’Intifada armata.
La soluzione, secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth che citava fonti ufficiali, era uccidere Arouri.
L’attenzione e la strategia di Israele erano focalizzate intensamente sulla Cisgiordania, dato che Hamas, in quel momento, e dal punto di vista israeliano, sembrava disinteressato a uno scontro.
Ma perché Israele è giunto a questa conclusione?
Errore di calcolo
Numerosi eventi importanti, che avrebbero dovuto spingere Hamas a reagire, si sono verificati senza alcuna seria risposta armata da parte della Resistenza a Gaza.
Lo scorso dicembre, Israele aveva giurato di essere il governo più di destra della storia.
I ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich sono arrivati sulla scena politica con l’obiettivo dichiarato di annettere la Cisgiordania, imporre il controllo militare sulla moschea di Al-Aqsa e su altri luoghi sacri musulmani e cristiani e, nel caso di Smotrich, addirittura negando l’esistenza stessa del popolo palestinese.
I loro impegni si sono rapidamente tradotti in azioni, sotto la guida del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Ben-Gvir desiderava dimostrare al suo collegio elettorale che la presa della moschea di Al-Aqsa, da parte di Israele, era imminente.
Quindi ha ripetutamente ordinato raid su Al-Aqsa, con una frequenza senza precedenti. Il più violento, e umiliante, è avvenuto il 4 aprile, quando i fedeli sono stati picchiati dai soldati israeliani mentre pregavano all’interno della moschea, durante il mese sacro del Ramadan.
I gruppi della Resistenza a Gaza hanno minacciato ritorsioni, lanciando diversi razzi verso Israele, per ricordare in modo simbolico che i palestinesi sono uniti, indipendentemente da dove si trovino nella mappa geografica della Palestina storica.
Israele ha ignorato il messaggio, e ha strumentalizzato le minacce palestinesi di ritorsioni, e occasionali “attacchi solitari”, come quello di Muhannad al-Mazaraa contro l’insediamento illegale di Maale Adumim , come capitale politico per accendere il fervore religioso della comunità israeliana.
Nemmeno la morte del prigioniero politico palestinese Khader Adnan, avvenuta il 2 maggio, sembrava aver cambiato la posizione di Hamas.
Alcuni avevano paventato l’idea di una spaccatura tra Hamas e la Jihad islamica, dopo la morte di Adnan, causata da un prolungato sciopero della fame nel carcere di Ramleh.
Il giorno stesso, il PIJ ha lanciato razzi contro Israele, dato che Adnan era uno dei suoi membri più importanti.
Israele ha risposto attaccando centinaia di obiettivi all’interno di Gaza, per lo più case civili e infrastrutture, provocando la morte di 33 palestinesi e il ferimento di altri 147.
Il 13 maggio è stata dichiarata una tregua, anche questa senza la partecipazione diretta di Hamas, un fatto che ha molto rassicurato Israele.
Il suo sanguinoso attacco alla Striscia aveva raggiunto più di uno scopo militare, in gergo “falciare il prato”, e anche uno scopo politico.
La valutazione di Israele, tuttavia, si è rivelata sbagliata, come dimostrato dagli attacchi ben coordinati di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, che hanno preso di mira diverse basi militari, insediamenti e posizioni strategiche.
Ma Hamas è stato ingannevole? Ha nascosto i propri obiettivi strategici reali, in previsione di quel grande evento?
“L’inondazione ruggente”
Un rapido esame delle recenti dichiarazioni di Hamas dimostra che il gruppo palestinese non è stato affatto omertoso riguardo le proprie intenzioni.
Due settimane prima del nuovo anno, durante una manifestazione a Gaza il 14 dicembre, il leader di Hamas Yahya Sinwar, ha espresso un chiaro messaggio a Israele:
“Verremo da voi in un’alluvione ruggente. Verremo da voi con infiniti razzi; verremo da voi in un flusso illimitato di soldati, come una marea che si ripete”.
La risposta immediata all’attacco di Hamas è stata prevedibile: solidarietà statunitense-occidentale con Israele, appelli alla vendetta, completa distruzione e annientamento di Gaza, e piani di sfollamento dei palestinesi da Gaza verso l’Egitto, e dalla Cisgiordania verso la Giordania.
L’attacco contro la Striscia, dal 7 ottobre, ha provocato un numero di vittime senza precedenti rispetto a tutte le guerre israeliane contro Gaza e contro i palestinesi, nella storia moderna.
Il termine “genocidio” è stato utilizzato subito, da intellettuali e attivisti, e dagli esperti di diritto internazionale.
“L’assalto genocida di Israele a Gaza è esplicito, aperto e spudorato”, ha scritto il 13 ottobre Raz Segal, professore associato di studi sull’olocausto e sul genocidio presso l’Università di Stockton, in un articolo intitolato “Un caso di genocidio da manuale”.
Eppure, nemmeno l’ONU ha potuto fare qualcosa.
Il segretario generale Antonio Guterres ha dichiarato l’8 novembre che le Nazioni Unite non hanno “né denaro né potere” per impedire il genocidio in atto a Gaza.
In sostanza, questo ha mostrato la debolezza e inefficienza dei sistemi giuridici e politici internazionali, dato che ogni tentativo del Consiglio di Sicurezza nel chiedere un cessate il fuoco immediato e permanente, è stato bloccato dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali di Israele.
Mentre il bilancio delle vittime aumenta tra la popolazione di Gaza, che è inoltre privata di cibo secondo la stima del 28 novembre del Programma alimentare mondiale, i palestinesi continuano a resistere in tutta la Striscia.
La loro resistenza non si limita ad attaccare o tendere imboscate ai soldati israeliani invasori, ma si basa, di fatto, sulla leggendaria fermezza di un popolo che rifiuta di essere indebolito o sfollato.
Sumud
Il sumud è continuato, anche quando Israele ha iniziato ad attaccare sistematicamente ospedali, scuole e ogni luogo che, in guerra, è considerato come “luogo sicuro” per la popolazione civile assediata.
Il 3 dicembre, il capo della sezione Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, ha affermato che “non esiste un posto sicuro a Gaza”.
Una frase che è stata ripetuta spesso da altri funzionari delle Nazioni Unite, insieme ad affermazioni quali “Gaza è diventata un cimitero per i bambini”, dichiarata dal portavoce dell’UNICEF James Elder il 31 ottobre.
Questo ha costretto Guterres, il 6 dicembre, a invocare l’articolo 99, che consente al Segretario Generale di “portare all’attenzione del Consiglio di Sicurezza qualsiasi questione che a suo avviso possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”.
La violenza israeliana, e il sumud palestinese, si sono estesi anche alla Cisgiordania.
Consapevole del potenziale di resistenza armata in Cisgiordania, l’esercito israeliano ha rapidamente lanciato raid mortali contro diverse città, villaggi e campi profughi, uccidendo centinaia di palestinesi, ferendone e arrestandone a migliaia.
Gaza è rimasta l’epicentro del genocidio israeliano.
A parte una breve tregua umanitaria, dal 24 novembre al 1° dicembre, abbinata a scambi di prigionieri, la battaglia per Gaza è continuata, a un prezzo senza precedenti di morte e distruzione.
I palestinesi sanno molto bene che l’attuale lotta significherà una nuova Nakba, come la pulizia etnica del 1948, o l’inizio del rovesciamento di quella stessa Nakba, in un processo di liberazione del popolo palestinese dal giogo del colonialismo israeliano.
Israele è determinato a porre fine alla Resistenza palestinese una volta per tutte, ma è ovvio che la determinazione del popolo palestinese per la conquista la libertà è decisamente maggiore.
Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui.
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