La vicenda di Shahin va letta come parte di un fenomeno più ampio: negli ultimi anni si sta assistendo a una crescente criminalizzazione di cittadini arabi, musulmani e palestinesi.
“Shahin libero!”. Questo il grido che si è levato da piazza Castello, dove il movimento Torino per Gaza ha convocato un presidio urgente davanti alla sede della Prefettura per chiedere la liberazione immediata di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo. Da ore si cercavano notizie certe sulla sua sorte: prelevato ieri, portato in Questura, è stato infine trasferito al CPR di Caltanissetta, a oltre 1.600 chilometri da Torino, la sua città. Un’informazione, quest’ultima, che si è potuta ottenere solo attraverso un’interrogazione parlamentare.
In piazza la rabbia fa tutt’uno con l’indignazione. Il provvedimento contro Shahin – la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo e un ordine di espulsione – non ha nulla a che vedere con ragioni di sicurezza. Shahin vive in Italia da oltre due decenni. È egiziano, dissidente del regime di Al-Sisi, incensurato, padre di due figli nati qui, un punto di riferimento nel dialogo interreligioso e attivo nella mediazione culturale e nella collaborazione con istituzioni, scuole e associazioni del territorio.

L’accusa nei suoi confronti è di aver partecipato a cortei per la Palestina esprimendo posizioni critiche verso Israele. In particolare, durante una manifestazione svoltasi alcune settimane fa, aveva definito il 7 ottobre come “una reazione a decenni di occupazione”. Parole che, oltre a dire una verità difficilmente contestabile, rientrano pienamente nell’ambito della libertà di opinione garantita dalla Costituzione, ma che sono state sufficienti a rendere Shahin oggetto di una brutale violenza islamofoba che ogni giorno di più sembra diventare indirizzo politico ufficiale del governo e delle istituzioni italiane.
Infatti, nonostante Shahin abbia presentato un modello C3 per richiedere protezione internazionale, procedura che sospende automaticamente qualsiasi espulsione, il giudice ha convalidato il rimpatrio. Una decisione che molti, a partire dai giuristi presenti al presidio, definiscono “inaccettabile” e “in contrasto con la legge”. L’eventualità del ritorno in Egitto evoca scenari drammatici. “Sappiamo bene cosa lo aspetta: l’arresto, torture, forse la morte. Fino a poche ore fa non sapevamo neppure dove fosse. In altre epoche si sarebbe parlato di desaparecidos.”

Le prime manganellate mediatiche contro Shahin erano arrivate dopo un’interrogazione della deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli – la stessa Montaruli già condannata in via definitiva per peculato – che chiedeva esplicitamente l’espulsione dell’imam. Da quel momento si è attivato un meccanismo volto a colpire sistematicamente una voce scomoda.
A rilevarlo è il parlamentare di AVS Marco Grimaldi, che afferma che “ci troviamo di fronte a un uso politico del diritto, un caso gravissimo di compressione dei diritti fondamentali e di aggiramento delle garanzie previste per chi chiede protezione internazionale. Per questo chiediamo l’immediata sospensione del provvedimento di espulsione, il rispetto della procedura di asilo e un chiarimento urgente da parte del Ministero dell’Interno”. Sulla stessa linea la capogruppo di AVS in Consiglio regionale Alice Ravinale, anche lei intervenuta al presidio, che definisce Shahin “un uomo di pace colpito per aver difeso Gaza”.
Per tutti coloro che sono scesi in piazza l’intera vicenda è il palese tentativo di intimidire il dissenso attraverso la criminalizzazione delle posizioni filo-palestinesi. Alcuni interventi sul palco non usano mezzi termini: “Il ministro Piantedosi ha emesso una sentenza di morte”, afferma un manifestante, evocando i regimi cileni e argentini. “La logica è: colpirne uno per educarne cento.”

A prendere posizione ci sono anche diversi consiglieri comunali torinesi, che in una nota congiunta sottoscritta da Abdullahi Ahmed e Ludovica Cioria (Pd), Valentina Sganga (M5S), Sara Diena e Emanuele Busconi (AVS) ribadiscono che “la libertà di opinione non è un reato”, che Shahin è “un torinese pacifico che non ha mai danneggiato niente e nessuno: 20 anni da persona onesta e incensurata, padre di due figli nati qui in Italia, non si cancellano con un articolo di giornale o una interrogazione parlamentare”.
La vicenda di Shahin va letta come parte di un fenomeno più ampio: negli ultimi anni si sta assistendo a una crescente criminalizzazione di cittadini arabi, musulmani e palestinesi, anche quando le accuse riguardano semplici espressioni politiche o slogan di mobilitazione civile. Si sta andando verso la normalizzazione di una “presunzione di colpevolezza” basata sull’identità e sulle opinioni politiche. “Per questo la mobilitazione non deve cessare”, è la convinzione unanime della piazza torinese, che già in serata si è data appuntamento per un corteo a San Salvario, il quartiere di Shahin.
L’Italia farebbe bene a interrogarsi sul significato più profondo di questa vicenda. In questione è la tenuta stessa dello Stato di diritto, la libertà di espressione e la capacità della democrazia costituzionale di proteggere chi chiede sicurezza, non di punirlo per ciò che pensa.


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