
Esce per Edizioni Q “Ritorno a Gaza – Scritti di donne italo-palestinesi sul genocidio”, prima pubblicazione tutta al femminile che attraverso la riflessione personale delle palestinesi in Italia propone una disamina culturale e politica della violenza genocidaria sionista e della storica resistenza palestinese al progetto coloniale.
Con i contributi di Mjriam Abu Samra (curatrice), Shaden Ghazal, Rania Hammad, Sabrin Hasbun, Laila Hassan, Samira jarrar, Sara Rawash, Noor Shihade, Tamara Taher, Widad Tamimi.
Il ricavato del libro sara’ devoluto a GAZZELLA ONLUS
Riportiamo l’Introduzione di Mjriam Abu Samra
Questa raccolta di brevi articoli, tutti scritti al femminile, nasce in un momento storico in cui la voce delle donne palestinesi s’impone come atto di resistenza contro le narrazioni egemoniche che hanno per tanto tempo distorto, frammentato e strumentalizzato la più generale lotta di liberazione palestinese. Mai come adesso il racconto personale e politico delle seconde generazioni di donne palestinesi in Italia è importante sia per capire l’impatto e la portata del genocidio a Gaza, sia per deco- struire le strutture di potere coloniali che continuano a modellare il discorso pubblico occidentale.
Pensato inizialmente come un instant-book per offrire nell’immediato utili chiavi di lettura che non solo fossero capaci di favorire nella società italiana un’ottica e un impegno critici nel momento in cui questa entra in rapporto con la drammatica violenza sionista sui palestinesi a Gaza e pensato anche perché fosse utile a delimitare il ruolo complice di approcci discorsivi e narrativi limitati e limitanti nel contesto europeo, il processo di scrittura di questo libro si è invece rivelato più lungo del previsto.
La gran parte dei contributi raccolti in questo volume sono stati preparati oltre un anno fa; tuttavia, io stessa ho impiegato mesi a completare la mia parte di scrittura, riflettendo sulle testimonianze raccolte, cercando le parole giuste per introdurre lavori che già di per sé esprimevano con forza la profondità di questa fase storica. Per oltre un anno, mi sono ritrovata a fissare una pagina bianca chiedendomi cosa potesse aggiungere questa Introduzione, cosa potessi dire che non fosse già stato spiegato, gridato, denunciato nelle pagine che le autrici di questi capitoli hanno saputo riempire prima di me. Per un anno intero, ogni giorno, ho provato frustrazione nel non riuscire a trovare la forza di parlare, come invece hanno saputo fare loro, per contribuire a una visione che non fosse stereotipata né che si limitasse a un’analisi emotiva o geopolitica della lotta palestinese, ma che restituisse la sua complessità umana, oltre che politica.
Cosa si può ancora dire che non sia già stato detto? Cosa si deve ancora dire che non sia già una verità manifesta, evidente in ogni immagine trasmessa attraverso la televisione, in ogni testimonianza diffusa sui social media? A cosa servono le parole, se il mondo, di fronte all’evidenza, si ostina a non voler sentire? Quanto ancora dobbiamo scrivere, parlare, raccontare, spiegare modellando il nostro linguaggio in modo che risulti più accettabile, meno ‘fastidioso’, più comprensibile per chi ascolta o legge, piuttosto che per chi quella situazione la vive, quando siamo noi palestinesi a denunciare l’oppressione di cui il mondo è complice? A cosa serve continuare a rivendicare voce e spazio, quando tutti si affannano a parlare di noi, per noi? Non rischiamo di essere ancora una volta strumentalizzate, di diventare l’ennesimo ‘volume di palestinesi’ relegato alle note a piè di pagina di testi scritti con la pretesa di capirci, spiegarci, raccon- tarci al meglio?
L’ennesima fase di violenza coloniale rappresentata dal genocidio dei palestinesi a Gaza ha imposto, con forza, una riflessione su queste questioni. Ha richiesto una riesamina non solo delle dinamiche geopolitiche a livello mondiale, ma anche delle critiche epistemologiche che, sebbene sembrassero ormai consolidate nel dibattito accademico con la denuncia pluridecen nale dei limiti della narrazione occidentale nei confronti dell’‘altro’, oggi si rivelano ancora deboli, incapaci di tradursi in pratiche decoloniali concrete. Ho interpretato la mia difficoltà a scrivere come un’inconscia ribellione alla produzione del sapere – letteraria, informativa e discorsiva – che ha caratterizzato l’approccio, non solo mediatico ma anche accademico, alla Palestina in quest’ultimo anno. Avrei preferito il silenzio. E il silenzio si è imposto su di me.
Ma il silenzio non deve diventare resa. Scrivo nel marzo 2025. Solo ora sono riuscita a trovare la forza di abbozzare questa Introduzione, a oltre un anno da quel 7 ottobre, nel mezzo di una nuova fase segnata da una recrudescenza della violenza coloniale sionista a Gaza, ma anche in altri luoghi, sia della Palestina, sia dei paesi limitrofi. Gli eventi, a partire dall’ottobre 2024, a un anno dall’inizio del genocidio, hanno portato nuovi interrogativi, nuove preoccupazioni, nuove analisi geopolitiche, che ci hanno disorientati.
I continui attacchi israeliani al Libano nonostante i ripetuti cessate il fuoco; la caduta del regime di Assad e gli attacchi israeliani in Siria; l’attacco americano allo Yemen; il riposizionamento degli attori internazionali e regionali; l’illusione di un cessate il fuoco a Gaza che non ha mai retto; i massacri e le espulsioni forzate estese anche alla Cisgiordania, che rendono le pratiche genocidarie sioniste sempre più tangibili; i volgari piani di espulsione della popolazione palestinese da tutta la Palestina, nella più arrogante esplicitazione della supremazia coloniale bianca e delle pratiche di annichilimento e cancellazione del popolo indigeno, in un’ulteriore escalation della nakba: tutto questo si è manifestato con una violenza dirompente che in confronto rende una pratica ‘gentile’ le atrocità del colonialismo dei secoli passati.
L’incredulità di fronte alla fredda implementazione dell’oppressione coloniale paralizza. La consapevolezza che il sistema globale specula e si rafforza attraverso ogni tipo di violenza imposta ai palestinesi – materiale, economica, discorsiva e geografica – è drammaticamente concreta. E sembra imporsi anche attraverso la forza della rassegnazione, indicando che lo sfruttamento e il dominio coloniale continueranno a prevalere e che la struttura dell’assetto internazionale non si emanciperà mai dalle dinamiche di oppressione.
Ed è invece proprio di fronte a ciò che appare come un’inevitabile resa alla forza della violenza che la parola ritrova il suo significato. Scrivere ora non è una scelta, ma un atto necessario. Che mi si impone. Al di sopra del silenzio.
La scrittura diventa necessaria per affermare, nero su bianco, che al di là delle molteplici analisi sostenute dal realismo politico, l’unica certezza che perdura è l’ineluttabilità della resistenza anticoloniale. Una resistenza che la storia ci ripresenta ciclicamente, nella costanza della centenaria resilienza palestinese, in tutte le sue geografie e oltre i suoi confini; nella dignità delle migliaia di uomini e donne prigionieri di Israele che rivendicano la loro dedizione al progetto di liberazione, nonostante le torture e le umiliazioni; nell’orgogliosa rivendicazione identitaria dei palestinesi del ’48; nelle generazioni in esilio che continuano a far sentire la propria voce sfidando un sistema oppressivo capace di mutare la forma, ma non la sostanza.
Oggi, più di un anno fa, è cruciale una riflessione approfondita su quanto sta accadendo e sul modo in cui il progetto di liberazione è vissuto, affrontato e analizzato dalle donne palestinesi di seconda generazione in Italia. E questo non solo per capire la condizione palestinese, ma anche per interrogarsi sul modo in cui tale condizione è percepita dal contesto italiano.
Dall’ottobre 2023, il popolo palestinese si è trovato a combattere non solo la violenza genocidaria dello Stato sionista, ma anche l’apparato ideologico e propagandistico che ne ha giustificato l’operato. La retorica orientalista, da sempre strumento di dominio coloniale, ha assunto nuove forme per giustificare il massacro, diffondendosi non solo tra i circoli sionisti, ma permeando l’intero discorso occidentale. Come in ogni dinamica di oppressione coloniale, si è assistito all’uso strumentale della ‘solidarietà di genere’ e del femminismo liberale finalizzati a minare il diritto alla resistenza palestinese.
Le donne palestinesi, consapevoli di tale manipolazione, hanno rivendicato il loro spazio, sfidando la disumanizzazione dei palestinesi e denunciando l’ipocrisia del femminismo liberale, che ignora la violenza sessuale e di genere esercitata dal colonialismo sionista e strumentalizza la retorica della solidarietà per appiattire i rapporti di potere tra colonizzati e colonizzatori. Esse hanno offerto un’alternativa epistemologica che pone al centro la voce delle donne nella loro esperienza di resilienza nella diaspora*.
Resilienza e resistenza che devono confrontarsi con la violenza materiale ed ontologica di quello che oserei definire totocidio attuato contro i palestinesi. La violenza sionista non si limita a una singola dimensione della distruzione, ma ha un obiettivo sistematico e totale: rendere impossibile la vita ed esistenza dei palestinesi in Palestina negando ogni possibilità di futuro tramite il genocidio (eliminazione fisica), l’ecocidio (distruzione ambientale), lo scolasticidio (cancellazione dell’educazione e della cultura), il genocidio riproduttivo (annientamento della capacità di riproduzione), lo sradicamento territoriale, la cancellazione della memoria e dei legami storici, e anche l’ontocidio, la negazione dell’identità, dell’essenza ontologica del popolo.
Questa raccolta di testimonianze è quindi un atto di riappropriazione della narrazione palestinese, in tutte le dimensioni in cui essa è minacciata, e offre una visione alternativa del mondo, fondata su una lotta che è al tempo stesso nazionale e globale, materiale ed epistemologica. È un documento della resistenza palestinese nella diaspora che rivendica il proprio ruolo nel percorso di liberazione. È la testimonianza di una dimensione emotiva che si fa politica, della lotta che nasce dall’esperienza intima della storia che è personale ma anche e soprattutto collettiva.
Questo libro non vuole essere solo il racconto di un vissuto che si manifesta e si traduce in modi diversi – ma interconnessi – nelle varie esperienze individuali. Vuole sottolineare invece la forza dirompente del collettivo che si impone sul personale, che rigetta le categorie di tempo, di subalternità e persino di trauma – così come concepito nell’interpretazione neoliberale – per dare spazio alla visione comune di futuro, di impegno condiviso nella rielaborazione di strategie di liberazione, epistemologica e politica. Qui si intrecciano passato e futuro, si sfidano le frammentazioni spaziali e politiche imposte dal colonialismo, si costruisce un’identità politica che supera l’esilio e si radica nella memoria collettiva e nella lotta quotidiana.
E proprio nel riaffermare tale identità che questo libro si propone non solo come spunto interpretativo per il pubblico dei lettori italiani, ma ambisce a essere uno spazio di confronto tra palestinesi stessi, un contributo al dibattito e alla riflessione costruttiva all’interno della società palestinese. La scrittura qui non è, in fondo, solo un atto di narrazione, ma è anche un’espressione di partecipazione attiva, di presa di parola necessaria per pensare collettivamente il futuro della Palestina.
Rivendicare il diritto alla voce significa anche ribadire la centralità della diaspora nel progetto di liberazione, ovvero la piena appartenenza alla sfera politica palestinese. Questo libro si fa quindi strumento di elaborazione critica, spazio di articolazione di un pensiero politico autonomo che, nel rifiutare la marginalità imposta, riafferma la centralità della soggettività palestinese nella costruzione delle proprie strategie di liberazione.
In queste pagine troverete la consapevolezza di un’identità complessa, che si confronta e si scontra con il potere egemonico del colonialismo, che si nutre e si arricchisce nelle contraddizioni dell’esilio e della lontananza, che si fortifica nel significato politico di una storia non vissuta in prima persona, ma interiorizzata attraverso il racconto, la testimonianza, la trasmissione intergenerazionale.
Qui infine il lettore troverà una memoria che vuole essere lucidità politica, una bussola per attraversare il trauma del presente e individuare un futuro di decolonizzazione, sia in Palestina, sia nella narrazione che della Palestina si fa in Italia. È la rivendicazione della rabbia come motore di giustizia, dignità e rappresentazione autonoma, lontana dalle imposizioni di un discorso egemonico che ha troppo a lungo determinato chi siamo e come dovremmo essere raccontati. In queste pagine troverete la resistenza che si rinnova, la determinazione delle donne palestinesi della diaspora come voce della lotta di liberazione che si riappropria della propria storia e del proprio destino.
* Si noti che l’utilizzo di ‘diaspora’ per riferirsi all’esilio palestinese non è propriamente corretto. Il termine utilizzato in arabo, shatàt, è tradotto ‘di- spersione’ e, per estensione, ‘diaspora’. In questo libro si è optato per l’utilizzo del termine ‘diaspora’ per facilità narrativa. ma si sottolinea che questa traduzione non restituisce la natura violenta, di forzatura, che è intrinseca nella condizione dell’esilio palestinese.
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