Pace in Palestina? Colonialismo, speculazione e la logica dello sterminio

US special envoy to the Middle East, Steve Witkoff. (Photo: video grab)

By Stefano Marengo

A Gaza si è sfondato il muro anche di questa realtà distopica ed è emersa la logica dello sterminio come verità oscena della nostra epoca.

La settimana scorsa, intervistato sulla CBS insieme a Jared Kushner, Steve Witkoff ha rivelato che da due anni un team di specialisti sta lavorando al masterplan per la ricostruzione di Gaza. In altri termini, l’inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente ha ammesso che alla fine del 2023, quando Gaza doveva ancora essere distrutta, negli Stati Uniti il circolo di finanzieri e immobiliaristi al seguito di Trump stava già preparando il progetto preliminare per la “Gaza riviera”.

Qualcuno potrebbe obiettare che due anni fa alla presidenza degli Stati Uniti c’era ancora Biden, ma questo banale dato di fatto, più che smentire le parole per nulla sibilline di Witkoff, getta solo ulteriori ombre sul consociativismo della politica americana e sui propositi che gli USA hanno effettivamente coltivato insieme a Israele per tutto questo tempo.

Imperialismo vecchio e nuovo

Ciò che di certo oggi è evidente a tutti è il ruolo svolto nello sterminio di Gaza dai grandi poteri finanziari, che non solo hanno orientato le scelte dei governi, ma si sono ulteriormente legati a un’ideologia politica – il progetto coloniale sionista – capace a loro avviso di garantire sostanziosi profitti in tempi piuttosto celeri. Al riguardo è quasi superfluo ricordare che lo stesso Witkoff, prima di essere un diplomatico, è un imprenditore e finanziere, mentre Kushner, genero di Trump e suo ex consigliere, è l’erede e uomo forte di una delle più potenti famiglie di immobiliaristi di New York City.

La logica sottesa a tutti questi maneggi è in larga parte quella del vecchio imperialismo, e d’altronde è ormai noto che tra la nostra epoca e quella dell’imperialismo classico corre più di un’analogia. Oggi come allora il capitale, smessi i panni della produzione e indossati quelli della finanza, ha un’insaziabile esigenza di sempre nuovi mercati di sbocco per incrementare la sua stessa accumulazione.

Da qui il ricorso programmatico al colonialismo (e al militarismo e al nazionalismo) per accaparrarsi spazi in cui dar sfogo alle proprie pulsioni speculative.

Certo, posta in questi termini, la cosa suona inaccettabile, e infatti né Witkoff né Kushner – i nostri nuovi Cecil Rhodes – hanno l’ardire di raccontarci quello che davvero hanno in testa. Al contrario, proprio come i loro antesignani, ci parlano di sviluppo e crescita, e in questo modo il progetto della “Gaza riviera” può esserci venduto dalla politica e dai media mainstream addirittura come un “piano di pace”, in un triplo salto carpiato lessicale che fa pudicamente velo alle reali istanze del capitale finanziario e serve, insieme, ad effettuare un rebranding del colonialismo israeliano.

A questo punto, tuttavia, la vicenda inizia a divergere rispetto al passato. Se gli speculatori di un tempo dovevano quantomeno fare la fatica di mettere in piedi dal principio le loro imprese coloniali, oggi il colonialismo in Palestina è già una realtà, quindi per i nuovi pescecani della finanza si tratta di trovare una quadra con i colonizzatori e adeguarsi alla loro agenda politica. Kushner, non a caso, ha affermato che nessun fondo per la “ricostruzione” raggiungerà le aree controllate dalla resistenza palestinese, ma verrà concentrato sulla porzione di Gaza occupata da Israele (circa il 58% della Striscia). Detta più chiaramente, la “pace” in Palestina significa innanzitutto la creazione di nuove infrastrutture a uso e vantaggio di Tel Aviv.

La fusione di amorosi intenti tra finanza speculativa e colonialismo di insediamento sionista può essere considerata l’epitome di oltre quattro decenni di neoliberalismo, e in fondo, a ben pensarci, il salto da Reagan e Thatcher alla “Gaza Riviera” appare incredibilmente naturale.

È sintomatico, a questo proposito, che le prime bozze per la “ricostruzione” siano state presentate dall’istituto fondato da Tony Blair, ex premier britannico direttamente responsabile di due guerre neocoloniali in Medio Oriente e ideologo di quella Terza via che sdoganò definitivamente a sinistra un programma economico-sociale reazionario e classista. Chi meglio di lui, come suggerito dallo stesso Trump, potrebbe assumere la carica di Viceré di Gaza nella prossima “transizione”?

La logica dello sterminio

A suo tempo Marx aveva paragonato il capitale a una creatura vampiresca che può vivere soltanto finché succhia il sangue della forza-lavoro. In anni più vicini a noi Zygmunt Bauman ha mostrato come nella società dei consumi, accanto a montagne di rifiuti, il modello di sviluppo neoliberale produca altrettante “vite di scarto” funzionali al mantenimento del modello stesso, come monito e minaccia per tutti coloro che nel mercato devono condurre una vera e propria lotta per l’esistenza.

A Gaza si è sfondato il muro anche di questa realtà distopica ed è emersa la logica dello sterminio come verità oscena della nostra epoca. I palestinesi non sono lavoratori da sfruttare né rifiuti umani da gettare in qualche discarica.

Il genocidio a cui stiamo assistendo in diretta da due anni ci dice nel modo più chiaro e radicale che è la loro morte, non la loro vita, ad avere valore. È la loro morte, infatti, che genera occasioni di profitto liberando spazio per la speculazione e terra per la colonizzazione. Genocidio, colonialismo e capitalismo, connettendosi come adombramenti di una stessa figura, ci mostrano così il volto del potere come tanatopotere, come potere che vive grazie al massacro di masse di umanità.

Credere che quello proposto per Gaza sia davvero un piano di pace è un’illusione che viene alimentata ad arte da chi trae profitti dal genocidio e alla quale, comunque, molti desiderano abbandonarsi per non guardare negli occhi la spaventosa realtà. In questo modo si elude o, peggio, si normalizza il fatto che, a poco più di due settimane dall’inizio della “tregua”, Israele abbia violato il cessate il fuoco oltre cento volte e ucciso almeno 250 palestinesi.

Onestà intellettuale imporrebbe di prendere atto che il genocidio non è finito, ma è solo stato rallentato per un po’, messo in sordina. La cosa più probabile è che riprenderà presto ai ritmi che abbiamo conosciuto negli ultimi due anni.

Declino e violenza del potere neoliberale

Non è accidentale che il vero volto del potere venga in piena luce proprio nella fase in cui il ciclo storico di dominio statunitense si sta esaurendo, e con esso, si spera, anche il ciclo del sionismo.

È in queste epoche di declino che un modello di potere, nel tentativo di perpetuare sé stesso, diventa più violento e brutale. Ne vediamo gli effetti anche in Europa, con la restrizione sempre più evidente degli spazi di libertà e democrazia, con il rinfocolarsi della propaganda guerrafondaia e la nuova corsa agli armamenti, infine con governi che coniugano l’ortodossia neoliberale con una postura sempre più marcatamente autoritaria e intollerante (e fa davvero poca differenza, a questo livello, che essi si dichiarino formalmente di destra o di sinistra).

Per quattro decenni, ripetendo le parole di Margaret Thatcher, chi ci ha governato non ha smesso di ricordarci che non c’è alternativa al neoliberalismo e alla sua logica. Un portato della grande menzogna della fine delle ideologie? Forse. Fatto sta che ci siamo ritrovati come sfere su un piano inclinato e man mano che rotolavamo verso il basso le nostre stesse esistenze venivano sempre più precarizzate in ossequio alle esigenze del capitale.

E mentre a noi erano sottratte le conquiste di decenni di lotte, in Palestina l’occupazione militare proseguiva, la colonizzazione si espandeva e veniva sistematizzato l’apartheid, fino a sfociare nel genocidio odierno. Per tanto tempo abbiamo creduto che si trattasse di due realtà diverse.

Oggi, con la distruzione di Gaza che ha strappato l’ultimo velo dal volto del potere, sappiamo che si tratta di due aspetti differenti ma solidali della medesima realtà.
Il popolo palestinese, con le sue indicibili sofferenze e la sua resistenza, ci ha messo di fronte alla nuda realtà di un dominio che prospera su cumuli di cadaveri.

Ma se la verità del dogma neoliberale è la logica dello sterminio, se il punto di caduta del “non c’è alternativa” è il genocidio, allora l’unica risposta moralmente e politicamente appropriata è la rivolta.

Perché con il tanatopotere non esiste dialogo o compromesso possibile. Cedere su questo punto, smettere di combattere e dare ascolto a coloro che “fanno il deserto e lo chiamano pace” significa far precipitare nel gorgo l’umanità tutta intera.

- Stefano Marengo è studioso di filosofia e militante politico. Ha pubblicato saggi e articoli sul pensiero di Michel Foucault e sulla filosofia francese contemporanea. Attualmente le sue ricerche vertono su temi di epistemologia e filosofia politica: marxismo, crisi del paradigma della statualità, globalizzazione, critica postcoloniale, pensiero politico islamico. Ha contribuito questo articolo per il Palestine Chronicle Italia.

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