I sionisti nelle università non fermeranno la lotta degli accademici per la liberazione

Un workshop tenuto dal Professor Ilan Pappé European Centre for Palestine Studies dell'Università di Exeter. ((Photo: via University of Exeter website)

By Ilan Pappé

Di recente, ho ricevuto la cortese e-mail di uno studente israeliano della mia università che mi invitava alla conferenza di un certo Yoseph Haddad. Mi è stato riferito che Haddad racconterà agli studenti la meravigliosa vita degli arabi che vivono nei territori del 1948, attualmente Israele. L’evento coincideva con con l’istituzione di una nuova associazione studentesca presso l’Università di Exeter, la “New Israel and Zionism Society”. Il titolo del Jewish Chronicle sottolineava con enfasi come nessun gruppo studentesco presente nel campus si fosse opposto alla decisione.

Il cortese invito a me rivolto altri non era che un tentativo di rappresentare la propaganda sionista come parte integrante del naturale dibattito accademico. L’assenza di obiezioni alla nuova associazione, invece, era semplicemente dovuta al fatto che nessuno sapesse della sua costituzione o della sua registrazione. Ma non è questo il punto.

Ciò che conta è che, sorprendentemente, la comunità anglo-ebraica che sostiene Israele e sionismo possa davvero credere, in questo momento storico, che un arabo sionista o un nuovo gruppo sionista abbiano un messaggio credibile da presentare a studenti e docenti delle università britanniche.

La corporazione studentesca, in assenza di una reale comprensione dei fatti, ha dato per buona la motivazione alla base della neonata organizzazione: “Crediamo che ci sia una mancanza di rappresentazione delle idee e dei valori sionisti che spesso sono frutto di fraintendimento da parte deli studenti.

Questi “studenti male informati” sono i candidati al dottorato di rcerca in Studi sulla Palestina e sul Medio Oriente, che sono più edotti su Israele e Palestina di quanto non lo siano, probabilmente, i giornalisti più esperti del Jewish Chronicle. L’aspirazione, da parte della nuova associazione, ad avere “una piattaforma equa e ben informata su Israele” all’interno dell’università arriva con almeno quarant’anni di ritardo.

Le azioni compiute da Israele in questi quarant’anni, che continua a compiere tutt’oggi e che, come molti di noi sanno, ha avviato sin dal 1948, sono troppo eclatanti. Se davvero si cercasse una piattaforma equa e ben informata su Israele, questa non potrebbe che esprimersi con il linguaggio impiegato da Amnesty International per descrivere lo stato israeliano come un regime di apartheid.

A Exeter, ci saranno al massimo tre studenti che si considerano sionisti. Haddad avrà dunque il compito di diffondere la propaganda sionista nel nostro campus. Non è un tentativo di istruire studenti e docenti sul sionismo. Sono veri e propri atti di intimidazione, tesi a minare l’eccellente programma di studi sulla Palestina e il fondamentale lavoro svolto dagli attivisti filo-palestinesi tra i nostri studenti.

Quello degli Studi sulla Palestina è un ambito di ricerca relativamente nuovo, avviato con successo da alcuni studiosi palestinesi sin dagli anni ‘60. 

È un’operazione accademica interdisciplinare, che dimostra come una ricerca approfondita e meticolosa possa convalidare le principali affermazioni formulate dai palestinesi nel corso degli anni; vale a dire che il sionismo è un movimento coloniale, spinto dalla logica dell’eliminazione dei nativi e che impiega, tra gli altri mezzi, l’apartheid, per cercare di completare il progetto di sfollamento e sostituzione avviato sin dalla fine del XIX secolo.

Non c’è una modalità accademica per contrastare il grande lavoro che stiamo facendo, non solo a Exeter ma in otto centri per gli studi sulla Palestina in tutto il mondo. Per questo motivo, l’altra parte cerca di imporsi con la forza, attraverso tentativi alquanto patetici di intimidire, con la propria presenza, l’inevitabile produzione accademica sulla Palestina.

La nostra battaglia non è stata ancora vinta, ma i centri e programmi di studio finora avviati continuano ad espandersi e ad influenzare la ricerca, lo studio e l’insegnamento sulla Palestina. C’è, tuttavia, uno scotto da pagare, quando arrivano  tentativi di sopprimere e mettere a tacere queste voci: alcuni dei nostri colleghi più vulnerabili sono tuttori presi di mira dalla lobby israeliana, ovunque si trovino. Molti hanno addirittura perso il posto di lavoro per essere rimasti fedeli alle loro convinzioni morali e al loro impegno nella lotta in Palestina.

Ci sono poi Paesi, come la Germania, l’Italia e la Francia, per non parlare dei nuovi membri dell’Unione Europea, in cui le università non osano ancora istituire un centro palestinese o inserirlo nel programma di studi. Pur sapendo bene che ciò che viene insegnato nelle loro università è pura propaganda, queste realtà non sono ancora in grado di arginare questa farsa nei loro atenei. È importante tenere conferenze in questi luoghi, il pià possibile, per aiutare i nostri coraggiosi colleghi a respingere un assalto alla loro libertà di espressione e ricerca accademica.

La nostra più grande sfida, tuttavia, non è costituita da questi tentativi di intimidirci nel nostro ambiente accademico, o dall’incapacità di diffondere i centri a livello globale. La sfida è altrove. Per quanto la ricerca sulla Palestina sia in costante aumento, non è riuscita, finora, ad avere una ricaduta importante sulla realtà sul campo. Sembra anzi che vi siano due traiettorie diametralmente opposte: da una parte, il peggioramento delle condizioni materiali all’interno della Palestina e dall’altra, una chiara e imponente produzione accademica al di fuori.

Questa dura considerazione è stata oggetto di una recente ed eccellente conferenza sulla Palestina organizzata dall’Arab Research Center di Doha. Un convegno che visti protagonisti giovani e meno giovani accademici palestinesi, affiancati da esimi studiosi da tutto il mondo.

La vera sfida è produrre una ricerca che sia il più possibile efficace e rendere, almeno a volte, la penna più potente della spada. In questo, nessuno ha la verità in tasca: bisogna lavorare collettivamente. 

L’unico vantaggio della comunità accademica globale sulla Palestina è il suo approccio alla questione palestinese in generale; si tratta di una comunità con poche divisioni interne sul piano ideologico e politico.

Costituisce una visione abbastanza solida e unificata per il futuro, senza trascurare il suo ruolo nel movimento di liberazione. In quanto tale, non si pone alla guida dei fenomeni, né gli accademici si considerano rappresentanti dei movimenti. Costituiscono, tuttavia, un capitale umano che può essere impiegato al meglio nella lotta di decolonizzazione e liberazione.

Questo capitale umano è pronto e disponibile. Quando, si spera presto, si potrà avviare un processo di democratizzazione, unità e rappresentanza all’interno del movimento di liberazione, andrebbe a costituire un enorme vantaggio per la causa.

In fondo, ha svolto un ruolo cruciale negli anni ’60 nell’istituzionalizzazione della lotta di liberazione, che ha dato inizio a quello straordinario periodo di lotta che va fino al 1982; e poi, ancora, ha ispirato la rivolta del 1987, sebbene alcuni accademici abbiano involontariamente avuto un ruolo nefasto cedendo ai facili entusiasmi per gli accordi di Oslo. È tuttora una componente fondamentale nella resilienza mostrata oggi dai palestinesi dentro e fuori la Linea Verde.

Questi barlumi di speranza che arrivano dal passato possono diventare ancora più rivoluzionari, ponendosi al centro delle azioni di lotta futura.

- Ilan Pappé è docente presso at the University of Exeter ed ex docente di scienze politiche presso l'Università di Haifa. Tra i suoi volumi figurano La Pulizia Etnica della Palestina, Storia della Palestina Moderna e 10 Miti su Israele. Pappé è considerato uno dei 'nuovi storici' israeliani che, dopo la pubblicazione di documenti britannici e israeliani nei primi anni '80, hanno contribuito a riscrivere la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle.

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