
È stato fatto un passo avanti. Altri adesso devono seguire. Non è sufficiente invocare la pace, come alcuni hanno fatto in piazza, se essa non è fondata su una giustizia autentica.
Ci sono due modi per valutare la manifestazione del centrosinistra “per Gaza” del 7 giugno. Il primo, di carattere morale, consiste nel mettere in evidenza l’ipocrisia e la malafede di molti politici che solo oggi, dopo oltre un anno e mezzo di genocidio, sembrano essersi accorti di quanto sta avvenendo in Palestina. Si tratta di un atteggiamento legittimo e comprensibile, tanto più che la piattaforma politica della manifestazione era intenzionalmente vaga e piena di luoghi comuni, non certo un manifesto di rottura con il passato.
Il secondo approccio è quello politico e consiste nel cogliere il senso e le tendenze emerse da quella piazza anche al di là delle intenzioni di chi l’ha convocata. Sotto questo aspetto si sono chiaramente manifestare delle novità significative che vale la pena analizzare. Questo, beninteso, non vuol dire dimenticare o, peggio, perdonare l’ignavia che molti politici (per fortuna non tutti) hanno dimostrato per ben diciotto mesi.
Al contrario, si tratta di capire in che modo i cambiamenti che si stanno registrando possono costituire quantomeno una svolta tattica nella lotta di liberazione della Palestina.
Come è stato più volte ripetuto, l’improvviso cambio di linea da parte dei media e della classe politica nei riguardi di Gaza alimenta più di un sospetto sulla sua autenticità. Il riposizionamento delle élites occidentali appare infatti funzionale a sterilizzare la protesta e, soprattutto, ad addossare le responsabilità dello sterminio in atto sul solo Netanyahu e sul suo governo, senza mai mettere in questione Israele come progetto colonialista e suprematista.
In altri termini, l’obiettivo non dichiarato delle leadership euroatlantiche, scaricato Bibi, sarebbe il ritorno allo status quo ante 7 ottobre 2023, quando l’occupazione e la colonizzazione proseguivano in tutta la loro brutalità senza che il dramma palestinese facesse notizia.
Non c’è alcun dubbio che porzioni consistenti della classe dirigente italiana, anche nel centrosinistra, perseguano questo disegno. Non è detto però che tutti i leader siano disponibili a diventarne complici né, soprattutto, che l’opinione pubblica che si intende mobilitare sia disponibile a farsi strumentalizzare. Dinamiche di questo tipo, difficilmente prevedibili e governabili, possono diventare dirompenti, e in un senso molto preciso è proprio ciò che è accaduto sabato scorso in piazza San Giovanni.
Prendiamo l’intervento dal palco di Rula Jebreal, il cui incipit vale la pena riportare per esteso:
“Tutti i genocidi iniziano con parole che negano l’umanità di un popolo, parole che criminalizzano le vittime trasformandole in una minaccia esistenziale contro cui tutto è permesso. Le parole sono fondamentali perché giustificano i crimini e determinano le azioni; ma sono fondamentali anche per resistere. Le cose vanno chiamate col loro giusto nome, altrimenti non le vediamo. È importantissimo definire quello che sta succedendo a Gaza un genocidio, perché è l’unico modo per fermarlo. Termini come crisi umanitaria e crimini di guerra sono un inganno e non bastano per far scattare gli imperativi morali e legali per fermare il genocidio”.
Se queste poche frasi sono di per sé di una chiarezza cristallina, la loro reale importanza sta nell’aver pronunciato la parola proibita: genocidio.
Con il suo intervento Jebreal ha aperto una voragine nel discorso pubblico che diversi leader politici sono stati disposti a percorrere, parlando anch’essi apertamente di “genocidio in corso a Gaza”. L’unica eccezione è stata Elly Schlein, che ha menzionato soltanto la pulizia etnica, una scelta senz’altro studiata per annacquare e normalizzare le eventuali “intemperanze linguistiche” degli alleati, ma che in definitiva non ha fatto altro che dar loro ancora di più risalto.
Tra i manifestanti, sotto al palco, il clima non era diverso. Se i leader del centrosinistra sono arrivati a San Giovanni dietro uno striscione che faceva pudicamente riferimento al “massacro” di Gaza, ce n’erano molti altri in cui il genocidio veniva espressamente evocato e condannato, segno che la piazza era ben più variegata e politicamente consapevole di quanto si potesse ipotizzare e di quanto alcuni degli organizzatori avessero sperato.
Insistere sull’uso in quel contesto della parola “genocidio” non è un vezzo da filologi né velleitarismo militante. Molto concretamente, quella parola detta, scritta e comunque aleggiante ovunque sulla piazza ha segnato una svolta politica. E questo per diverse ragioni.
La prima e più immediata è che, da parte del centrosinistra, si è trattato del riconoscimento sostanziale, seppur colpevolmente tardivo, di ciò che il movimento per la Palestina dice in migliaia di piazze da oltre un anno e mezzo. È un aspetto da non sottovalutare: chi intendeva sterilizzare il movimento sta fallendo, ma soprattutto le innumerevoli organizzazioni che si sono mobilitate in tutta Italia in questi diciotto mesi non potranno più essere etichettate come estremiste e in quanto tali marginalizzate ed escluse dal dibattito pubblico.
In secondo luogo, il fatto che il genocidio sia stato denunciato proprio da quel palco, ossia dalla tribuna del centrosinistra che sta dentro le istituzioni, non può che aprire uno squarcio nella cortina fumogena della propaganda dei media mainstream e contribuire a suscitare sconcerto e indignazione morale, ed eventualmente una presa di posizione politica, anche presso quei settori della società che, per le più varie ragioni, non hanno una reale consapevolezza della questione palestinese.
In questo senso non è un caso che, all’indomani della manifestazione di Roma, molti tra i giornalisti e gli editorialisti più allineati si siano sentiti in obbligo di smentire, senza peraltro addurre validi argomenti, che a Gaza sia in corso un genocidio, e ovviamente non sono mancate, come da copione, grottesche accuse di antisemitismo rivolte a tutta la piazza.
Ma la ragione davvero fondamentale per cui ciò che è accaduto a Roma costituisce un punto di non ritorno è ancora un’altra, e molto più seria. Infatti, l’accusa di genocidio – il crimine dei crimini – destituisce chi lo commette di ogni legittimità morale e politica, e ben difficilmente Israele, di fronte a un’opinione pubblica sempre più cosciente e a una possibile condanna da parte della Corte Internazionale di Giustizia, sarà in grado di sopravvivere a se stesso. E parliamo proprio di Israele in quanto stato, non di Netanyahu o del suo governo, perché da che mondo è mondo nessun genocidio è mai stato compiuto per semplice volontà di un singolo e dalla sua cerchia fanatica, ma sempre attraverso la solerzia di apparati pubblici compiacenti e con il consenso manifesto o silenzioso di strati maggioritari della società civile.
Naturalmente è inutile cercare di prevedere il futuro e disegnare scenari troppo particolareggiati. Ciò che invece si può ragionevolmente dire è che la manifestazione di Roma, per come si è svolta e per quello che è stato detto, ha la potenzialità, almeno in Italia, di innescare un effetto domino tale da conferire sempre maggiore centralità alla questione palestinese e rendere Israele uno stato sempre più isolato.
È stato fatto un passo avanti. Altri adesso devono seguire. Non è sufficiente invocare la pace, come alcuni hanno fatto in piazza, se essa non è fondata su una giustizia autentica. E giustizia in Palestina significa non solo la fine del genocidio, ma lo smantellamento dell’occupazione e dell’apartheid, la fine del sionismo e la messa in soffitta di slogan dannosi e impraticabili come “due popoli due stati”.
In altri termini, giustizia è decolonizzazione integrale di tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano e creazione di uno stato unico, binazionale e democratico per tutti i suoi cittadini. Questa è da sempre la piattaforma del movimento per la liberazione Palestina, l’unica in grado di risolvere alla radice le tragedie vissute da quella terra. È tempo che le nostre classi dirigenti smettano di temporeggiare e aderiscano anch’esse a questa visione di giustizia.

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