Da Gaza alla Columbia: gli insegnamenti del nuovo movimento studentesco

Santuario nell'accampamento di Duck Pond, in solidarietà a Gaza nel campus dell'Università del New Mexico. (Foto: pagina IG SamidounAbq)

By Benay Blend

Con una mossa che evidenzia l’appello di Kanafani a rompere i confini, gli studenti di varie associazioni a Gaza hanno rilasciato una dichiarazione, chiedendo un blocco studentesco globale.

Poco dopo il 7 ottobre, gli studenti della Columbia hanno scritto una comunicazione, nella quale esprimevano solidarietà a tutti gli israeliani e palestinesi che avevano perso familiari in quel giorno. Quel che a prima vista sembrava “equidistanza”, si è evoluta invece in un’analisi che condanna il sistema coloniale israeliano come responsabile delle proprie azioni.

“Il peso della responsabilità della guerra, e delle vittime, ricade innegabilmente sul governo estremista israeliano, e su altri governi occidentali”, si legge nella dichiarazione, “incluso il governo degli Stati Uniti, che finanzia e sostiene fermamente l’aggressione israeliana, l’apartheid e la colonizzazione”. 

Prosegue chiedendo quanto segue: fine della discriminazione da parte dell’università contro gli studenti palestinesi; disinvestimento dai programmi congiunti con le istituzioni israeliane e, infine, riconoscimento, secondo il diritto internazionale, del diritto legale di resistere del popolo palestinese.

Per ritorsione, la Columbia ha sospeso le carte di ‘Students for Justice in Palestine’ (SJP) e ‘Jewish Voice for Peace’ (JVP). Quando gli studenti hanno allestito un accampamento, in solidarietà con Gaza, sul prato dell’università, il presidente Shafik ha autorizzato la polizia a perlustrare il campus e procedere con arresti di massa.

Imperterriti, gli studenti hanno continuato la protesta, che ormai si è estesa ad altri campus. Il numero degli accampamenti, fino a pochi giorni fa, era almeno di 50. Forse, per la prima volta dai tempi del movimento Occupy, assistiamo a una nuova campagna nazionale coordinata, e molti sono gli insegnamenti  da apprendere da questi studenti.

Nella città di New York, le risposte dei funzionari governativi e universitari, dimostrano che il concetto di diversità spesso non porta al cambiamento. Ad esempio, il presidente della Columbia University, Menouche Shafik, è una donna egiziana, e ha testimoniato alle recenti udienze della Camera dell’Istruzione e della Forza Lavoro, che ritiene i cori “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” e “lunga vita all’ Intifada” come slogan antisemiti.

Abbinando la sua retorica all’azione diretta, Shafik ha chiesto che la polizia effettuasse un controllo dell’accampamento filopalestinese della Columbia, che arrestasse gli studenti e i docenti che li sostenevano. Equiparando ebraismo e sionismo, sostegno alla liberazione palestinese e terrorismo, Shafik ha trasformato il campus in uno stato di polizia, riportando così l’orologio indietro al periodo precedente al 1968, prima che una simile ribellione studentesca portasse alla protezione della parola e della protesta nel campus.

I funzionari statali hanno seguito l’esempio. Il governatore di New York, Kathy Hochul, alla fine si è scusata per aver detto ““Se un giorno il Canada attaccasse Buffalo, il giorno dopo non ci sarebbe più nessun Canada” in analogia con il 7 ottobre. Presumendo che si tratti di un paragone logico, Hochul ha sorvolato sul fatto che Israele abbia trasformato Gaza in un campo di concentramento a cielo aperto, il che gli conferisce diritto legale alla resistenza.

Hochul ha continuato esprimendo il desiderio di visitare Israele, un paese che secondo lei ha subito un 11 settembre, paragonando la Resistenza ai terroristi che hanno colpito le Torri, esprimendo ancora una volta una falsa analogia, cancellando così le precedenti scuse. Hochul ha rifiutato l’offerta dell’AIPAC di pagarle il viaggio in Israele, ma ha detto in seguito che saranno i contribuenti di New York a pagarle il conto del viaggio.

Anche il Sindaco di New York, Eric Adams, un democratico moderato della comunità nera, ha visitato Israele. “Cercherò di trovare un appezzamento di terreno, sarà il posto giusto dopo la pensione”, ha dichiarato il Signor Adams alla rivista Mishpacha. “Amo il popolo di Israele, il cibo, la cultura, la danza, tutto quel che riguarda Israele”. 

A quanto pare Adams non ha problemi a vivere su terre rubate, una posizione che forse spiega la sua condanna “all’antisemitismo diffuso dentro, e intorno, al campus della Columbia University”, equiparando ancora il sionismo all’ebraismo, un falso paragone popolare tra i politici statunitensi.

Presso l’Università del New Mexico (UNM), il lancio dell’accampamento ha coinciso con i ‘Nizhoni Days’, una celebrazione annuale della cultura e dell’istruzione nativa, indetta dagli studenti nativi dell’UNM, dalle organizzazioni studentesche dei nativi, e dai dipartimenti di supporto dell’UNM. 

In uno stato con una grande popolazione indigena, è logico che ci siano collegamenti tra la terra rubata in patria e il colonialismo all’estero, con la Palestina al centro.

“An Enemy Such as This: Larry Casuse and the Fight for Native Liberation on Two Continents over Three Centuries” (2022) di David Correia, ripercorre la vita e la morte di Larry Casuse, un combattente per la libertà indigeno, la cui lotta contro il colonialismo nel New Mexico, dove, scrive Correia , nacque il colonialismo. La sua lotta, e quella della sua famiglia, che dura da generazioni, è una lezione per tutti coloro che oggi combattono contro il colonialismo.

Nel quarto giorno di accampamento dell’UNM, il 25 aprile, ai partecipanti è stato chiesto di indossare il rosso, per onorare i parenti indigeni scomparsi e assassinati (MMIR). Incluso nel santuario, pubblicato nella foto, c’era l’immagine di un’anguria, simbolo della Palestina, insieme alla richiesta di restituzione della terra.

In onore della Solidarietà Diné-palestinese, gli attivisti hanno proiettato il film “Spaces of Exception” che traccia collegamenti tra la vita di Rez e i campi profughi palestinesi. Le proiezioni si terranno al Navajo Nation Museum il 26 aprile, e alla Fort Defiance Chapter House il 27 aprile.

Gli studenti di diverse università di Atlanta stanno protestando contro il genocidio dei palestinesi, e contro il progetto Cop City, un’istituzione che vorrebbe distruggere la foresta di Weelaunee. 

E’ stata gestita dai popoli Muscogee e Cherokee, prima di diventare una piantagione di schiavi, per poi trasformarsi in una fattoria carceraria di Atlanta.

La proposta di distruzione di una foresta ad Atlanta, in Georgia, per far posto a Cop City, funziona come caso per studiare i modi in cui i colonialismi sono collegati. Le origini del progetto possono essere ricondotte al Centro Israeliano di Addestramento alla Guerra Urbana (UWTC), finanziato con 45 milioni di dollari dagli Stati Uniti. Questi centri sono laboratori per strategie contro le popolazioni emarginate, che vanno dalla Palestina occupata alla classe operaia, alle comunità prive di documenti in Atlanta.

In molti di questi accampamenti l’internazionalismo è una strategia che si rifà al defunto rivoluzionario, e scrittore palestinese, Ghassan Kanafani. Come osserva Louis Brehony, Kanafani ha svolto un ruolo importante nel collocare la lotta palestinese in una prospettiva internazionalista e antimperialista.

“L’imperialismo ha steso il suo corpo sul mondo”, aveva scritto Kanafani, “La testa nell’Asia orientale, il cuore nel Medio Oriente, le arterie raggiungono l’Africa e l’America Latina. Ovunque lo colpisci, lo danneggi, fai un servizio alla rivoluzione mondiale”.

Dato che Kanafani credeva che la causa palestinese non fosse solo per i palestinesi, ma che appartenesse invece a tutte le “masse sfruttate e oppresse” della sua epoca, avrebbe accolto con favore l’adesione del movimento studentesco.

Con una mossa che evidenzia l’appello di Kanafani a rompere i confini, gli studenti di varie associazioni di Gaza hanno rilasciato una dichiarazione chiedendo un blocco studentesco globale. 

“È tempo di distruggere la macchina da guerra imperialista statunitense”, hanno dichiarato. “Da Gaza alla Columbia, ad Ann Arbor e Berkeley, le nostre mani sono unite per porre fine al genocidio nazista e per raggiungere la liberazione collettiva”.

Scrivendo per Mondoweiss, Yumna Patel ricorda la sua partecipazione a ‘Students for Justice in Palestine’ (SJP) alla New York University, dieci anni fa, quando le proteste non attiravano le folle di oggi. “Stiamo assistendo alla storia in tempo reale”, scrive, “e non si può fare a meno di sentire che, mentre le repressioni senza dubbio aumenteranno, questi studenti stanno tracciando un nuovo percorso nel Paese. Un percorso che rifiuta la colonizzazione e l’imperialismo, e rifiuta la complicità delle nostre istituzioni accademiche nella macchina da guerra degli Stati Uniti e nell’oppressione globale”.

Nonostante la sua euforia, Patel esprime il timore che “le proteste iniziate letteralmente per attirare l’attenzione sul genocidio di Gaza, siano invece diventate il centro della storia”. Piuttosto che incolpare gli studenti, che secondo lei agiscono in buona fede, invita i media a continuare a concentrarsi sulle notizie provenienti da Gaza, dove si sono appena diffuse notizie di fosse comuni.

Sebbene Israele abbia ripetutamente preso di mira gli istituti scolastici di Gaza, gli studenti sono ancora determinati a continuare i loro studi. Il 15 aprile, il corrispondente del Palestine Chronicle da Gaza, Abdallah Aljamal, ha pubblicato un’intervista con Mohammed Abu Al-Rous, un insegnante della Malaysian Quranic School, alla periferia del campo di Nuseirat.

Israele tenta di distruggere il diritto dei bambini all’istruzione, ma non riuscirà a vincere. “Insegneremo ai nostri figli nelle tende, sotto il sole, ovunque”, ha dichiarato Abu al-Rous. “Siamo determinati a crescere una generazione palestinese istruita e informata, capace di resistere all’occupazione e di denunciarne i crimini in tutti i forum internazionali”.

Questa è la storia, di Abu al-Rous e molti altri come lui. I campi studenteschi sono lì, in segno di solidarietà, per assicurarsi che queste storie abbiano successo.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

- Benay Blend è dottore di ricerca in studi americani presso l'Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono Douglas Vakoch e Sam Mickey, Eds. (2017), "'Neither Homeland Nor Exile are Words': 'Situated Knowledge' in the Works of Palestine and Native American Writers". Ha contribuito questo articolo a The Palestine Chronicle.

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