Normalizzare i conflitti: ‘Prayer of the Mothers’ non sfida il colonialismo israeliano

'Prayer of the Mothers' è davvero una canzone di pace? (Photo: video grab, via Pressenza)

By Lorenzo Poli

Sebbene possa sembrare poetico e pacifico, in realtà è il modo più semplice per non elaborare i conflitti, per normalizzare le situazioni presenti ed impedire che i responsabili nemici della pace si prendano le loro responsabilità e paghino per i loro crimini.

In questi giorni, con l’inizio dell’ultima, brutale operazione militare dell’esercito israeliano su Gaza, ha ricominciato a girare sui social la canzone Prayer of the Mothers della cantautrice israeliana Yael Deckelbaum. La canzone, del 2016, aspira a una pacifica convivenza tra Israele e Palestina.

Nei messaggi, circolati in buonafede via Whatsapp tra alcuni ambienti pacifisti e nonviolenti, il link della canzone viene accompagnato con il seguente messaggio:

“È avvenuto un piccolo miracolo, quasi completamente ignorato dai media: migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane hanno camminato insieme in Israele per la pace. Nel nuovo video ufficiale del movimento Women Wage Peace, la cantante israeliana Yael Deckelbaum canta la canzone “Prayer of the Mothers” insieme a donne e madri di tutte le religioni, dimostrando cosa la musica può cambiare. Un miracolo tutto al femminile che vale più di mille parole.

“Condividetelo il più possibile!

“Shalom Salam Pace”

Nella maggior parte dei casi, chi faceva circolare il messaggio ingenuamente non sapeva che fosse una canzone del 2016 nata in ben altri contesti, ignorando anche tutte le criticità che essa presentava.

È importante quindi fare chiarezza sull’origine della canzone e capire quali problematiche celi.

La storia di Prayer of the Mothers 

La canzone Prayer of the Mothers è nata a seguito di una collaborazione tra la cantautrice Yael Deckelbaum e un gruppo di donne che guidano il movimento Women Wage Peace, un movimento fondato nell’estate 2014 durante la sanguinosa operazione militare israeliana conosciuta con il nome di “Margine protettivo”.

Il 4 ottobre 2016, alcune donne ebree e arabe hanno dato inizio al progetto congiunto «March of Hope» e migliaia di donne hanno marciato dal Nord di Israele a Gerusalemme in un appello per la pace.

L’iniziativa ha raggiunto l’apice il 19 ottobre di quell’anno, con una marcia di almeno 4.000 donne, metà delle quali palestinesi e metà israeliane, a Qasr el Yahud, sul Mar Morto settentrionale.

La stessa sera, 15.000 donne hanno dato vita a una protesta davanti alla casa del primo ministro a Gerusalemme.

Nella canzone, Yael Deckelbaum ha combinato una registrazione di Leymah con un video pubblicato su YouTube in cui aveva espresso le sue benedizioni al movimento.

Yael Deckelbaum, la cantautrice israeliana promotrice del movimento, viene spesso invitata ad eventi per presentare intenzioni e progetti per il futuro e l’album Yael & the mothers tratta dei temi della pace, della speranza, della sicurezza, della casa e della giustizia.

La critica cinematografica decoloniale

Da un punto di vista musicale, la canzone Prayer of the Mothers è orecchiabile e subito riporta alla mente una grande immagine di pace, di unione e di fratellanza tra i popoli.

Al di là della musica, tuttavia, il video che la accompagna merita un’operazione di decostruzione decoloniale.

Ambientato nel deserto, il video inizia con una scena di donne ebree e musulmane, israeliane e arabe, vestite di bianco in stile New Age, che salgono sull’altopiano a piedi nudi e poi si siedono in cerchio per cantare a turno una parte della canzone alternata in ebraico e in arabo, con ritornelli in inglese.

Nel video le donne, sia arabe sia israeliane, si rifanno in toto all’immagine di donna occidentale.

Nella maggior parte, dei casi si vedono donne bianche askenazite borghesi e donne arabe vestite con abiti non tradizionali fortemente stereotipati, degni dell’orientalismo coloniale del XVIII sec.

Si vedono anche spezzoni delle manifestazioni che, se da un lato non prevedono né bandiere israeliane, né bandiere palestinesi, né bandiere della pace, dall’altro prevedono striscioni quasi tutti scritti in ebraico.

Le donne arabe con il velo vengono mostrate solo nel video delle manifestazioni.

Il messaggio che passa è che, come sempre, l’arte e la musica riescono ad arrivare dove anni e anni di tentativi di accordi politici non sono riusciti a giungere, sostenendo come l’arma più efficace contro la guerra sia il dialogo e non la violenza.

Se questo è vero, spesso lo è anche perché il dialogo avviene a metà e in modo opportunistico senza affrontare i temi cruciali.

Il dialogo e la pace solo se mostriamo la nostra “nuda umanità”?

Dal video sembra emergere il messaggio che la pace si fa mettendosi alle spalle la storia per iniziarne un’altra tutti insieme e poco importa ciò che è successo nel passato.

Sembra che l’unica possibilità di dialogo possa avvenire se entrambi i contendenti siano disposti a spogliarsi di tutti i veli (cultura, etnia, religione) – almeno apparentemente – e mostrarsi nella loro essenza di umani.

Se questo può sembrare poetico e pacifico, in realtà è il modo più semplice per non elaborare i conflitti, per normalizzare le situazioni presenti ed impedire che i responsabili nemici della pace si prendano le loro responsabilità e paghino per i loro crimini.

Perché spogliarsi proprio adesso dei veli per volere la pace quando possiamo essere in pace anche con quei veli? Quei veli sono un problema per qualcuno? Perché dobbiamo dialogare solo da “nudi umani”? Forse perché quei veli a qualcuno non piacevano e sono stati la base per 75 anni di apartheid razzista? Dobbiamo spogliarci di quello che siamo per vivere in pace?

Abbiamo il dovere di porcele queste domande. Per anni il popolo palestinese è stato perseguito per motivi razziali, culturali e religiosi e davvero crediamo che basti spogliarsi di tutto per dialogare?

Oggi ci dite che la “razza” non esiste, che il problema della religione non esiste, che le differenti culture sono una ricchezza. E fino a ieri i palestinesi venivano perseguitati proprio per quei motivi.

La verità è che la “razza” non esiste ed è una costruzione socio-culturale, ma esiste come tale solo in chi vede la “razza” nell’altro; il problema della religione e delle differenze culturali esiste solo in chi crede che quello sia un problema.

Non serve spogliarsi dei veli per capire che siamo umani, siamo umani sempre. La nostra cultura e la nostra religione sono solo parte della nostra complessità di umani, però sembra che un “umano arabo” possa dialogare meno con un “umano israeliano”, mentre entrambi possono dialogare solo se umani spogliati di tutto.

Non è un caso che le donne israeliane chiamano le donne palestinesi che sono cittadine israeliane “arabe”, senza mai definirle palestinesi e questo è avvenuto anche all’interno di Women Wage Peace.

La logica di annullarsi per dialogare non risolvere il problema, ma ipocritamente lo copre, impedisce il vero dialogo e la vera pace appiattendo il dibattito e basando tutti gli ideali di fratellanza solo su ciò che siamo biologicamente: ovviamente umani, ma privi di complessità. Quanto sarebbe bello imparare a vivere in fratellanza tra umani veri con le nostre complessità?

“Fare pace” senza parlare dell’occupazione coloniale sionista

Il 18 ottobre 2017, il giornalista Jonathan Ofir per Mondoweiss ha scritto un articolo dal titolo Le donne israeliane marciano per “fare la pace” ma si rifiutano di sfidare l’occupazione. Un titolo importante in critica al movimento Women Wage Peace e alla marcia per la pace chiamata “Journey to Peace” che riprendeva l’articolo della giornalista israeliana Orly Noy, su +972 Magazine, intitolato “Come possono le donne “fare la pace” senza parlare di occupazione?”.

Il movimento Women Wage Peace ricevette il sostegno delle donne israeliane di tutto lo spettro politico e persino dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Tra le presenze importanti persino l’attivista liberiana Leymah Gbowee, che vinse il Premio Nobel per la Pace 2011 insieme a Ellen Johnson Sirleaf, che si è contraddistinta come leader portando alla conclusione la Seconda Guerra Civile Liberiana nel 2003, prima capo di Stato donna eletta in Liberia di orientamento fortemente neoliberale e grande sostenitrice del modello di sviluppo americano in Africa.

Il movimento Women Wage Peace aveva l’obiettivo politico di “raggiungere entro il 2018 un accordo politico onorevole e bilateralmente accettabile del conflitto israelo-palestinese”, evidentemente fallito.

I tre punti che delimitavano gli obiettivi erano: creare una grande amalgama di donne ebree e “arabe” (mai citate come palestinesi), religiose e secolari, Mizrahi e Ashkenazi, abitanti delle città e coloro che vivono lontane da centri economici, LGBTQ, nuove immigrate, veterane israeliane, donne dalle “colonie moderate” e di tutti i fronti politici con il fine di fare pressioni sul governo israeliano affinché desse priorità al raggiungimento di un accordo e aumentare il numero di donne in tutti gli aspetti dei negoziati come vorrebbe la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, di cui Israele è stato il primo firmatario nel 2005”.

Oltre a far emergere in tutta evidenza che si trattava di un movimento dominato da quella che potrebbe essere descritta come ala “sionista liberale”, ciò che risultava assurdo era come negli obiettivi non si richiedesse di porre fine all’occupazione coloniale illegale di Israele dei Territori Palestinesi Occupati in Cisgiordania.

Non solo, oltre a non pronunciare mai la parola “occupazione”, il movimento Women Wage Peace chiedeva la solidarietà delle donne delle “colonie moderate”.

Come ha sottolineato Johnatan Ofir, la risoluzione UNSC 2334 del 23 dicembre 2026 considera tutti gli insediamenti israeliani come “flagranti violazioni” del diritto internazionale, ovvero crimini di guerra ai sensi dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

“In altre parole, tutti i coloni israeliani sono effettivamente criminali di guerra” – scrive Ofir. Chi sarebbero dunque le donne delle “colonie moderate”? Esiste per caso un’oppressione coloniale soft o light per il movimento Women Wage Peace?

Chi decide quale colonia è più moderata di altra se tutte sono violazioni del diritto internazionali compiute da criminali di guerra? Può una colona seriamente parlare della presenza illegale e crescente di insediamenti, come quello in cui vive, che impediscono ogni possibilità di stabilire uno Stato palestinese?

“Una colona della Cisgiordania può facilmente salire sul palco e parlare della necessità di “discutere di cose difficili”?” – si chiedeva giustamente Orly Noy. Non solo, Noy evidenziava la sudditanza delle donne palestinesi all’interno del movimento che alla domanda sul perché non si accennasse mai alla parola “occupazione”, le hanno risposto “E’ stato deciso così”. Pur ammettendo che la cosa le infastidisse un po’ nonostante, la convinzione era che “dobbiamo parlare del futuro, visto che abbiamo già parlato troppo del passato”.

Non è un caso che, nelle manifestazioni organizzate dalla cantante Yael Deckelbaum e dal movimento Women Wage Peace, fossero presenti solo donne palestinesi aventi cittadinanza israeliana e nessuna palestinese proveniente dai TPO. Quindi quali obiettivi reali voleva raggiungere?

Hamas e il movimento BDS definirono il movimento come un tentativo di “normalizzare le relazioni con Israele”. In effetti è dagli Accordi di Oslo del 1993 che Israele vuole normalizzare l’occupazione e Women Wage Peace ha partecipato a questa normalizzazione aprendo alle “donne delle colonie moderate”.

Il WWP non ha mai parlato delle violazioni di Israele, né dell’occupazione, né degli insediamenti, né dell’assedio di Gaza e si è mostrato essere un movimento “apolitico”, bianco, coloniale ma che richiede “pace” attraverso “negoziati”.

“Israele vorrebbe entrare in un altro ciclo infinito di colloqui che eviterà la pressione internazionale e gli consentirà di continuare a espropriare, proprio come tutti i precedenti cicli di negoziati. Queste donne cercano di saltare in questo vuoto, riempiendolo con molte parole emotive e un disperato tentativo di creare una parvenza di simmetria tra israeliani e palestinesi” – scrisse Noy.

Women Wage Peace e la rigenerazione di politici razzisti

Il silenzio sull’occupazione sionista dei TPO ha permesso a molti storici politici uomini razzisti e colonialisti, di mostrare solidarietà al movimento. Uno di questi è Yehuda Glick, membro della Knesset appartenente al partito di destra Likud, che si era espresso favorevole alla costruzione del Terzo Tempio al posto della Moschea Al-Aqsa.

Glick era stato al centro di casi di profanazione di luoghi sacri islamici andando a pregare da solo sulla Spianata, cosa che smise di fare solo perché Netanyahu glielo vietò nel tentativo di calmare le tensioni.

Glick si era unito alle marce già nelle sue prime fasi del WWP, il quale si vantava di averlo tra i sostenitori in un articolo sull’ Israel National News per questa sua affermazione:

“È vero che una parte significativa delle loro attività è svolta da donne di sinistra, ma io ho detto, non lasciamo tutto il campo alla sinistra. Partecipiamo. Loro conoscono le mie opinioni. Io dico che la pace presuppone la nostra sovranità e costruzioni in Giudea e Samaria e loro mi applaudono.”

“In altre parole, – scriveva Ofir – questo movimento sta permettendo anche agli uomini – coloni messianici – di riciclarsi come “liberali”, perché anche loro vogliono la “pace”.”

Altro grande sostenitore era l’ex co-oratore della Knesset Moshe Feiglin il quale ricevette un premio per aver protestato contro le violazioni cinesi dei diritti umani e per continuare a lottare per “diritti umani” in Israele.

Feiglin è lo stesso che, nel 2014, scrisse un piano in 7 punti per la completa pulizia etnica di Gaza affermando, rivolgendosi ai palestinesi, che “se quei “terroristi” non sono umani, allora non hanno bisogno di “diritti umani”, quindi non c’è contraddizione, giusto?”.

Lo stereotipo del ruolo delle donne nella risoluzione dei conflitti armati

Women Wage Peace non è assolutamente un movimento femminista, anzi si basa su una leadership femminile volta a veicolare stereotipi femminili. Il WWP mette al centro il matricentrismo e le parole chiave per parlare delle donne sono state “madre” e “maternità”.

Il matricentrismo è un’evoluzione del patriarcato, dove si fa credere alla “madre” – quindi alla funzione, non alla donna – di essere importante perchè ha un ruolo che regge tutta la struttura di potere.

Questa non è esercizio di leadership femminile, ma esibizione di un ruolo fondamentale per la società patriarcale israeliana: equiparare in modo irritante femminilità e maternità. “

Viviamo in un paese in cui da una parte i grembi delle donne sono considerati dal regime come incubatrici di futuri soldati, mentre dall’altra parte i nostri grembi vengono utilizzati per parlare del nostro ruolo di madri che vogliono la pace.” – ha ricordato Noy.

Secondo WWP, essere donna significa in sostanza “vestire di bianco, cantare e ballare. Significa essere una madre e un grembo materno, sedersi a casa e prendersi cura dei nostri figli-soldato. Significa chiedere gentilmente agli uomini di fare la pace”. L’apoliticità di WWP chiedev un cambiamento, ma le donne non potevano decidere quale tipo di cambiamento, appellandosi agli “uomini” della politica per cambiare le cose.

L’apolitica proposta delle donne di WWP rafforza solo le strutture di potere esistenti, portando avanti l’idea stereotipata del ruolo compassionevole delle donne madri nella risoluzione dei conflitti, come se bastasse essere donna e madre per convincere qualcuno.

Una leadership femminile che non mette in discussione colonialismo, occupazione, suprematismo bianco, politiche liberticide, esproprio di terre alle popolazioni native e violazione dei diritti umani è connivente alle logiche patriarcali e dello status quo. L’idea che se solo ci fossero più donne nella leadership negoziale di Israele, le cose andrebbero meglio è assurda se non ridicola.

Israele non è stato e non è guidato solo da uomini e ci sono state e ci sono diverse donne leader – quelle che la sociologa femminista Sara Farris definisce femocrate – che “nel loro sciovinismo, violenza, grossolanità, intransigenza e arroganza potrebbero far sembrare pallido il tipico “sciovinista maschio”” – scrisse Ofir.

L’esempio israeliano può essere Golda Meir, che ha affermato che i Palestinesi non esistevano e che era così orgogliosa di sé da ignorare le aperture di pace di Saadat nel 1970, portando Israele nella guerra dell’ottobre1973. Per non parlare di tutte le altre donne ministro. In altre parole, le donne non necessariamente favoriscono la pace.

- Lorenzo Poli frequenta il corso di Scienze Politiche Relazioni Internazionali Diritti Umani presso l’Università di Padova. Appassionato di attualità politica e politica internazionale, collabora con diverse redazioni, tra cui InfoPal e Pressenza Italia. Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle Italia.

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