By Ramzy Baroud
Finché la narrazione filo-palestinese sarà priva degli strumenti necessari a far rispettare i propri principi, Israele e i suoi alleati occidentali non avranno alcun motivo per cambiare rotta.
Tre narrazioni dominanti si contendono il futuro di Gaza e della Palestina occupata, ma solo una viene tradotta in azioni concrete e determinanti: la narrazione israeliana del dominio e del genocidio. È questa visione unica e violenta l’unica sostenuta dalla forza brutale delle politiche e dei fatti.
La prima narrazione è quella dell’amministrazione Trump, ampiamente accolta dagli alleati occidentali degli Stati Uniti. Essa si fonda sull’affermazione autocelebrativa secondo cui il presidente statunitense Donald Trump avrebbe personalmente risolto la crisi mediorientale, inaugurando una pace che – secondo questo racconto – sarebbe sfuggita alla regione per migliaia di anni. Figure come Trump, il genero Jared Kushner e l’ambasciatore USA in Israele Mike Huckabee vengono presentate come gli architetti di un nuovo ordine regionale.
Questa narrazione è esclusiva, dominante e centrata sugli Stati Uniti. È stata incarnata dallo stesso Trump quando ha dichiarato “concluso” il conflitto di Gaza e ha presentato un “piano di pace” che evitava strategicamente qualsiasi impegno chiaro verso la creazione di uno Stato palestinese. L’intera visione si fonda su una diplomazia transazionale e sul rigetto del consenso giuridico internazionale, elevando l’approvazione statunitense a unico metro di legittimità.
La seconda narrazione è quella palestinese, sostenuta dai Paesi arabi e da gran parte del Sud globale. Qui l’obiettivo è la libertà e i diritti del popolo palestinese, fondati sul diritto internazionale e sui principi umanitari.
Questo discorso è spesso articolato attraverso le dichiarazioni di alti funzionari arabi. Il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty, ad esempio, ha affermato lo scorso aprile che la soluzione dei due Stati è “l’unica via per raggiungere sicurezza e stabilità in questa regione”, aggiungendo un monito: “Se ignoriamo il diritto internazionale, (…) apriremo la strada al prevalere della legge della giungla”. Questa narrazione continua a insistere sul ruolo centrale del diritto internazionale come fondamento di una pace autentica.
La terza narrazione è quella di Israele – ed è l’unica sostenuta da politiche concrete e aggressive. Questa visione si scrive attraverso una violenza sistematica e prolungata contro i civili, l’espropriazione aggressiva delle terre, la demolizione deliberata delle abitazioni e dichiarazioni governative esplicite secondo cui uno Stato palestinese non sarà mai consentito. I suoi attori agiscono con un’impunità inquietante, creando rapidamente fatti irreversibili sul terreno. Fondamentale è il fatto che il mancato esercizio di qualsiasi forma di responsabilità per questa violenza diffusa rappresenti la ragione principale per cui Israele è riuscito a portare avanti il suo devastante genocidio a Gaza per due anni interi.
Questa narrazione non è teorica: prende forma attraverso atti agghiaccianti e iniziative legislative promosse dai più alti funzionari governativi.
L’8 dicembre, il ministro israeliano della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir è apparso a una seduta della Knesset indossando una spilla a forma di cappio, mentre promuoveva una legge sulla pena di morte rivolta ai prigionieri palestinesi. Il ministro ha dichiarato apertamente che il cappio era “solo una delle opzioni” per applicare la pena capitale, elencando “l’opzione dell’impiccagione, della sedia elettrica e (…) dell’iniezione letale”.
Nel frattempo, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha annunciato lo stanziamento di 843 milioni di dollari per l’espansione degli insediamenti illegali nei prossimi cinque anni, un passo enorme verso l’annessione formale. Questo finanziamento senza precedenti è specificamente destinato alla ricollocazione di basi militari, alla creazione di cluster di accoglienza con case mobili e all’istituzione di un catasto dedicato per formalizzare il controllo governativo israeliano sui territori palestinesi occupati.
Questa politica di espansione territoriale è ulteriormente sancita dall’orientamento ideologico del governo, come dimostrato dalle parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha dichiarato senza ambiguità: “Non ci sarà uno Stato palestinese. È molto semplice: non verrà istituito”, definendo la sua eventuale creazione “una minaccia esistenziale per Israele”. Questo rifiuto categorico conferma che la strategia ufficiale del governo israeliano è l’espansione territoriale pura e semplice e la negazione permanente dell’autodeterminazione palestinese.
Nessuno di questi funzionari israeliani mostra il minimo interesse per il “piano di pace” di Trump o per la visione palestinese di uno Stato. L’obiettivo centrale di Netanyahu è garantire che il diritto internazionale non venga mai applicato, che non si instauri alcuna forma di sovranità palestinese e che Israele possa violare la legge nel momento e nel modo che ritiene opportuni.
La realtà è che queste narrazioni non possono continuare a coesistere. Solo una reale responsabilizzazione – attraverso pressioni politiche, giuridiche ed economiche – può fermare l’avanzata di Israele verso il proseguimento della sua campagna genocidaria, di distruzione e di legislazione punitiva. Ciò deve includere l’imposizione rapida di sanzioni contro Israele e i suoi principali responsabili, un embargo totale sulle armi verso Tel Aviv per porre fine alle guerre in corso e una piena assunzione di responsabilità davanti alla Corte Penale Internazionale (CPI) e alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG).
Finché la narrazione filo-palestinese sarà priva degli strumenti necessari a far rispettare i propri principi, Israele e i suoi alleati occidentali non avranno alcun motivo per cambiare rotta. Gli Stati devono abbandonare i gesti simbolici e dare priorità a misure di responsabilizzazione aggressive e proattive. Ciò significa andare oltre la semplice condanna verbale e applicare pressioni giuridiche ed economiche concrete.
Israele è oggi più isolato che mai, con un’opinione pubblica globale in rapido crollo. Questo isolamento deve essere sfruttato dalle forze filo-palestinesi attraverso un’azione diplomatica coordinata e decisiva, spingendo verso un fronte globale unito che esiga l’applicazione del diritto internazionale e la chiamata a rispondere delle proprie azioni da parte di Israele e dei suoi numerosi criminali di guerra per i crimini in corso.
Una pace duratura può essere costruita solo sulle fondamenta della giustizia, non sulla realtà militare imposta da un aggressore che non esita a ricorrere al genocidio al servizio dei propri obiettivi politici. Questo è il confine morale inderogabile: affrontare e smantellare l’impunità che consente a uno Stato di perseguire l’annientamento come strumento politico.


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