La solidarietà genuina non è condizionata: Gaza e l’unità intorno alla Palestina

Proteste in favore della Palestina si sono tenute in tutto il mondo. (Photo: Matt Hrkac, via Wikimedia Commons)

By Ramzy Baroud

La strada per la liberazione della Palestina può passare solo attraverso la Palestina stessa e, più specificamente, la chiarezza di intenti del popolo palestinese.

Un nuovo tipo di unità intorno alla Palestina si sta finalmente facendo strada nel movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Il motivo di questa unità è ovvio: Gaza.

Il genocidio di Gaza, il primo al mondo trasmesso in live-streaming, e la crescente, spontanea, empatia, e quindi solidarietà, nei confronti delle vittime palestinesi, hanno contribuito a ricollocare le priorità dai tipici conflitti politici e ideologici al punto in cui avrebbero dovuto sempre rimanere: la condizione del popolo palestinese.

In altre parole, sono stati la pura criminalità di Israele, ma anche la fermezza, la resilienza e la dignità dei palestinesi, uniti al genuino amore per la Palestina da parte della gente comune, a imporsi al resto del mondo.

Mentre molti gruppi di solidarietà, nonostante le divergenze, hanno sempre trovato margini di unità intorno alla Palestina, molti non lo hanno fatto.

Invece di riunirsi a sostegno di un discorso basato sulla giustizia palestinese, incentrato principalmente sulla fine dell’occupazione israeliana, sullo smantellamento dell’apartheid e sull’ottenimento dei pieni diritti dei palestinesi, molti gruppi si sono riuniti intorno alle proprie priorità ideologiche, politiche e spesso personali.

Ciò ha portato a profonde divisioni e, in ultima analisi, alla sfortunata scissione di quello che doveva essere un unico movimento globale.

Sebbene molti sostengano, a ragione, che il movimento abbia sofferto le terribili conseguenze della guerra siriana e di altri conflitti legati alla cosiddetta Primavera araba, in realtà il movimento è stato storicamente incline alle divisioni, ben prima dei recenti sconvolgimenti mediorientali.

Il crollo dell’Unione Sovietica, a partire dal 1990, ha lasciato cicatrici permanenti su tutti i movimenti progressisti del mondo, dove, secondo le parole di Domenico Losurdo, i “marxisti occidentali” si sono ritirati nei loro centri accademici e i “marxisti orientali” sono stati lasciati soli a combattere i flagelli del “nuovo ordine mondiale” guidato dagli Stati Uniti.

La balcanizzazione del movimento socialista a livello globale, ma soprattutto nei Paesi occidentali, è ancora visibile nella visione di molti gruppi socialisti riguardo agli eventi in corso in Palestina e alle loro “soluzioni” all’occupazione israeliana.

Che queste “soluzioni” siano pertinenti o meno, è di scarsissimo valore per la lotta dei palestinesi sul campo; dopo tutto, queste formule magiche sono spesso sviluppate nei laboratori accademici occidentali, con poca o nessuna connessione con gli eventi in corso a Jenin, Khan Yunis o Jabaliya.

Inoltre, c’è il problema della solidarietà transnazionale. Questo tipo di solidarietà è semplicemente condizionato all’aspettativa di un ritorno di uguale solidarietà sotto forma di reciprocità politica.

Questa nozione è un’applicazione male interpretata del concetto di intersezionalità, in quanto vari gruppi offrono solidarietà reciproca solo per amplificare la loro voce collettiva e promuovere i loro interessi.

Mentre l’intersezionalità a livello globale è difficilmente funzionale, per non dire sperimentabile – in quanto le relazioni interstatali sono di solito governate dalla strategia politica, dagli interessi nazionali e dalle formazioni geopolitiche – l’intersezionalità all’interno di un quadro nazionale e locale è molto possibile.

Affinché quest’ultima abbia un significato, tuttavia, è necessaria una comprensione organica delle lotte di ciascun gruppo, un certo grado di immersione sociale e un autentico amore e compassione reciproci.

Nel caso della Palestina, tuttavia, questa nobile idea viene spesso confusa con una solidarietà negoziabile e transazionale, che può funzionare a livello politico, soprattutto in tempi di elezioni, ma raramente aiuta a cementare legami a lungo termine tra comunità oppresse.

Il genocidio israeliano in corso a Gaza ha certamente aiutato molti gruppi a espandere i margini di unità in modo da poter lavorare insieme per porre fine allo sterminio di Gaza e per ritenere i criminali di guerra israeliani responsabili in ogni modo possibile.

Questo sentimento positivo, tuttavia, deve continuare a lungo dopo la fine del genocidio, finché il popolo palestinese non sarà finalmente libero dal giogo del colonialismo israeliano.

Il punto è che abbiamo già numerose ragioni per trovare e mantenere l’unità intorno alla Palestina, senza dover faticare per trovare un terreno comune ideologico, politico o di qualsiasi altro tipo.

Il progetto coloniale israeliano non è che una manifestazione del colonialismo e dell’imperialismo occidentali nelle loro definizioni classiche. Il genocidio a Gaza non è diverso dal genocidio del popolo Herero e Nama della Namibia all’inizio del XX secolo, e l’interventismo statunitense-occidentale in Palestina non è diverso dal ruolo distruttivo svolto dai Paesi occidentali in Vietnam e in numerosi altri spazi contesi in tutto il mondo.

Collocare l’occupazione israeliana della Palestina in un quadro coloniale ha aiutato molti a liberarsi da nozioni confuse sui diritti “intrinseci” di Israele sui palestinesi.

Infatti, non si può giustificare l’esistenza di Israele come “Stato ebraico” in una terra che apparteneva al popolo palestinese.

Allo stesso modo, il tanto sbandierato “diritto all’autodifesa” di Israele, una nozione che alcuni “progressisti” continuano a ripetere, non si applica agli occupanti militari in stato di aggressione attiva o a coloro che stanno compiendo un genocidio.

Mantenere l’attenzione sulle priorità palestinesi ha anche altri vantaggi, tra cui quello della chiarezza morale. Coloro che non ritengono i diritti del popolo palestinese abbastanza convincenti da sviluppare un fronte unito non sono mai stati destinati a far parte del movimento in primo luogo, quindi la loro “solidarietà” è superficiale, se non addirittura genuina.

La strada per la liberazione della Palestina può passare solo attraverso la Palestina stessa e, più specificamente, la chiarezza di intenti del popolo palestinese che, più di ogni altra nazione nei tempi moderni, ha pagato e continua a pagare il prezzo più alto per la propria libertà.

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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