L’inizio di una nuova fase: Gaza scuote il mondo

Palestinesi sfollati a Gaza. (Foto: Mahmoud Ajjour)

By Jeremy Salt

La fine dello stato sionista sarebbe l’inizio di una nuova fase, che annullerebbe tutti i danni fatti dopo Balfour: lo Stato può scomparire, ma le persone possono sopravvivere insieme in un nuovo stato fondato sull’uguaglianza per tutti.

In un dibattito televisivo australiano, alcuni giorni fa, è emersa la questione della Palestina. Uno dei relatori, profondamente ostile a Hamas, ha indicato la necessità di “andare a fondo di tutto questo”, nonostante i titoli dei giornali.

La conversazione non ha avuto una conclusione, dato che si è spostata in fretta su altri argomenti e, considerati i pregiudizi, sarebbe stata portata alle radici della sua stessa ignoranza, ma si percepiva il bisogno urgente di “andare a fondo di tutto questo”. 

È stata soppressa con successo fin dall’inizio in “Occidente”, attraverso una verità offuscata dai cliché secondo i quali il piccolo e coraggioso Stato si limita a difendere sé stesso.

Questa frode, di lunga data, è stata ormai distrutta dal genocidio di Gaza. La finestra attraverso la quale le masse di tutto il mondo sono in grado di vedere Israele non solo per quello che è, ma per quello che è sempre stato.

Dal lato sionista, l’inizio non è Herzl, ma i secoli di antisemitismo che hanno dato origine a Herzl. La sua idea di uno Stato ebraico in Palestina nacque dalla fusione tra antisemitismo, imperialismo e nazionalismo, ma le altre nazioni avevano una terra, mentre i sionisti no. Dietro il camuffamento di un’“antica patria”, di tribù legate dalla religione, si proposero di prendere la Palestina, e strapparla dalle mani di un altro popolo.

Il sionismo sarebbe appassito subito se gli inglesi non lo avessero visto come uno strumento utile a promuovere le proprie ambizioni imperiali. Questo esordio sionista ha dato origine alla questione palestinese.

Chiunque sia seriamente interessato ad “andare a fondo di tutto questo” deve capire che i palestinesi hanno resistito all’occupazione, e al sequestro della loro terra, non dal 1967, ma dall’inizio dell’insediamento sionista. È fondamentale tenerlo presente. Resistere non ogni tanto, ma ogni giorno, ogni settimana e mese da oltre un secolo.

I palestinesi che resistono contro Israele a Gaza, oggi, portano la fiamma di migliaia di persone che hanno resistito, e che sono morte prima di loro. 

Ricordano, commemorano e onorano i martiri, mentre difendono le loro famiglie e i loro diritti.

La creazione di uno stato coloniale in Palestina violava ogni precetto, morale e legale, su cui erano state costruite le Nazioni Unite. All’interno dei confini dello Stato ebraico, tutta la terra, collettivamente e individualmente, storicamente e culturalmente, apparteneva alla maggioranza non ebraica. 

L’unica eccezione era il 5-6% comprato da agenzie di acquisto di terreni dei coloni ebrei.

Al culmine della decolonizzazione, le Nazioni Unite hanno ammesso come membro uno stato coloniale costruito su terre rubate, etnicamente ripulite. Si è cercato di risolvere la contraddizione insistendo, alla fine del 1948, affinché i proprietari terrieri potessero tornare. Se fosse accaduto non ci sarebbe stato alcuno Stato ebraico. Il terreno stesso risulta rubato dal 1948 ad oggi. La divisione tra quel che è occupato e quel che non lo è, tra il 1948 e il 1967, è un costrutto “occidentale” artificiale: tutto è rubato e ancora occupato.

Le prove dei diritti palestinesi sono enormi. Molti palestinesi hanno ancora le chiavi, e i documenti di proprietà dei loro beni, motivo per cui il sequestro o la distruzione della documentazione è stata una parte importante dell’occupazione della Palestina.

La prova è abbondante anche nelle statistiche raccolte dall’epoca ottomana, fino al mandato britannico. Non esiste tribunale al mondo che non avrebbe ritenuto provate le accuse di furto, eppure non c’è stato alcun procedimento giudiziario nel caso della Palestina: al ladro è stato permesso di farla franca con il bottino. Questa è una piaga rimasta in suppurazione per 76 anni, e che ora si è aperta a Gaza.

Gli israeliani, dall’altra parte della recinzione di Gaza, vivono comodamente tra prati e irrigatori, mentre le persone alle quali è stata rubata la terra vivono nelle condizioni più disperate. 

I coloni possono vivere comodamente finché non possono farlo le persone che hanno sfollato. Questo è garantito dai militari, che controllano il campo di concentramento, e puniscono i detenuti ogni volta che sfuggono dal controllo.

Tutto è crollato il 7 ottobre. Contro ogni previsione, i detenuti sono scoppiati, infliggendo gravi danni a coloro che vivevano a loro spese. Hanno reagito con indignazione a questo attacco, come se non avessero idea della storia. Nessuno di loro aveva la consapevolezza che quel giorno sarebbe finalmente arrivato.

In tutto l’Occidente, l’attacco del 7 ottobre è stato descritto come un’atrocità, come un barbaro atto di terrorismo. Mai tali frasi sono state usate per descrivere le azioni dello Stato israeliano, da sempre infinitamente peggiori di qualsiasi azione palestinese. Ciò che fa Israele è “autodifesa”, ciò che fanno i palestinesi è “terrorismo”.

Questo è cambiato non per il 7 ottobre, ma a causa della risposta genocida dello Stato israeliano. Gli occhi precedentemente chiusi si sono aperti per la ferocia di quanto stavano vedendo. L’“esercito più morale del mondo” si è rivelato criminale e depravato, e gli stessi israeliani hanno presentato le prove. Omicidi di massa, torture, umiliazioni e sadismo, contro giovani e anziani, disabili e persone normodotate, malati e sani.

Gaza rappresenta un punto di svolta, ma sfortunatamente non verso la pace, ma verso una guerra più ampia. Non c’è una soluzione in vista, a uno o due stati, nemmeno lontanamente. 

Israele non è interessato a uno Stato, a meno che non sia ebraico e suprematista. Ha deliberatamente bloccato la soluzione a due Stati, riempiendo Gerusalemme est e la Cisgiordania di coloni: scacco matto, ha pensato Israele, permettendo ai coloni di scatenarsi.

La pace è una grande idea, ma Israele si muove incessantemente nella direzione opposta. La sua politica è quella di colpire in testa i suoi nemici finché non cedono. Questo non accadrà. Ogni crimine li rende più determinati. La nomina di Ben Gvir e Smotrich è solo una conferma della direzione israeliana: non va verso la pace, ma ben lontano da essa. Le continue minacce di riportare il Libano all’età della pietra, e di trasformare Beirut in un’altra Gaza, sono un’ulteriore prova.

C’è un tempo per i negoziati, e un tempo per rendersi conto che non funzionano, non funzioneranno, e che di fatto non fanno altro che rafforzare la posizione di uno Stato senza legge. Questo è stato il destino del “processo di pace” degli anni ’90. Negli anni ’30 le potenze occidentali hanno aperto la strada verso una guerra mondiale. Se si fossero opposti alla Germania e all’Italia, invece di accontentarli, non sarebbe accaduto, ma alla fine si raggiunse un punto in cui la guerra era ormai inevitabile per permettere la pace.

Ecco dove sembra trovarsi il Medio Oriente adesso. Israele non ascolta. Ancora una volta ostenta apertamente che farà quel che vuole, indipendentemente da ciò che pensa il resto del mondo. Ha completamente ignorato la sentenza sul genocidio della Corte Internazionale di Giustizia. 

Dopo quella sentenza ha ucciso altre migliaia di palestinesi a Gaza, e centinaia in Cisgiordania, dove il Governo ha consegnato il controllo amministrativo a due fascisti apertamente razzisti pieni di odio.

I messaggi che sta inviando non potrebbero essere più chiari. Ci vorrà un’altra guerra mondiale perché l’“Occidente” si renda conto che avrebbe dovuto intervenire prima? Quante altre persone dovranno morire prima che l’”Occidente” si renda conto che Israele non si fermerà finché non sarà fermato?

I pericoli non sono certo da sottovalutare. Israele ha armi nucleari e potrebbe usarle se arrivasse il giorno in cui inizierà una guerra che non può vincere: dato il l’attuale esaurimento militare, l’uso di armi nucleari per liberare il terreno nel sud del Libano è già stato menzionato come una possibilità.

La conclusione raggiunta dalla resistenza, molto tempo fa, è che non resta altra opzione realistica se non quella di combattere Israele fino al punto in cui subirà tali danni in guerra, da non poter sopravvivere come Stato, e sarà costretto a negoziare un futuro comune, oppure scegliere il Giorno del Giudizio. 

La fine dello stato sionista sarebbe l’inizio di un nuovo inizio, annullando tutti i danni fatti dopo Balfour: lo Stato può scomparire, ma le persone possono sopravvivere insieme, in un nuovo stato fondato sull’uguaglianza per tutti.

Israele non può continuare a esistere così: la vita a scapito della morte altrui. Sta gradualmente esaurendo la pazienza dei suoi amici, e aumentando l’odio dei suoi nemici. Eppure, in una terra non lontana, dalla quale Baldassarre chiese a Daniele di leggere la scritta sul muro, ci si rifiuta di vedere presagi di sventura sul proprio muro.

Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui. 

– Jeremy Salt ha insegnato presso l'Università di Melbourne, alla Bosporus University di Istanbul e alla Bilkent University di Ankara per molti anni, specializzandosi in storia del Medio Oriente. Tra le pubblicazioni più recenti figura il suo libro The Unmaking of the Middle East. Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle.

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