By Ilan Pappé
Tutto è iniziato con Homa e Migdal – ovvero un muro e una torre di guardia.
È possibile che i primi pensatori e leader del movimento sionista, nell’Europa di fine XIX secolo, immaginassero, o quantomeno sperassero, che la Palestina fosse una terra vuota e che, in caso avessero incontrato persone, si sarebbe trattato solo di tribù nomadi senza radici, che non abitavano davvero quella terra.
Se così fosse stato, quasi sicuramente i rifugiati ebrei in viaggio verso quella terra deserta, avrebbero potuto costruire una società prospera e, forse, avrebbero trovato un modo per evitare di distanziarsi dal mondo arabo.
Quel che sappiamo, con certezza, è che molti dei primi artefici e pionieri del sionismo, erano perfettamente consapevoli del fatto che la Palestina non fosse una terra vuota.
Questi architetti del sionismo erano troppo razzisti e orientalisti, come il resto d’Europa, per capire quanto fosse progressista la società palestinese in relazione a quel periodo, con una élite urbana istruita e politicizzata, e una comunità rurale che vivevano in pace all’interno di un equilibrato sistema di unione, coesistenza e solidarietà.
La società palestinese era sulla soglia della nostra modernità, come molte altre società della regione; una miscela di patrimonio tradizionale e nuove idee. Questa avrebbe potuto essere la base per un’identità nazionale, una visione di libertà e indipendenza nella terra che avevano abitato per secoli.
I sionisti certamente sapevano già che la Palestina era la terra dei palestinesi, ma percepivano la popolazione nativa come un ostacolo demografico, che doveva essere rimosso affinché il progetto sionista di costruire uno stato ebraico in Palestina potesse avere successo.
Così l’espressione sionista “La questione palestinese” o “Il problema palestinese” è entrata nel lessico della politica mondiale.
Agli occhi della leadership sionista, questo “problema” poteva essere risolto spostando i palestinesi e sostituendoli con immigrati ebrei.
Inoltre, la Palestina doveva essere strappata al mondo arabo e diventare un avamposto di frontiera, a servizio delle aspirazioni imperialiste e colonialiste occidentali riguardo la conquista del Medio Oriente.
Tutto è cominciato con Homa e Migdal, un muro e una torre di controllo.
‘Muro e Torre di Guardia’
Questi due elementi erano concepiti come punti di riferimento importanti per il “ritorno” ebraico nella terra apparentemente vuota, e sono presenti ancora oggi in ogni insediamento sionista.
A quel tempo i villaggi palestinesi non avevano mura né torri di guardia, come non ne hanno nemmeno attualmente.
Le persone si spostavano e uscivano liberamente, godendosi la vista dei villaggi lungo la strada, il cibo e l’acqua erano a disposizione di ogni passante.
Gli insediamenti sionisti, al contrario, custodivano religiosamente i loro frutteti e campi, e consideravano chiunque li toccasse come ladri e terroristi.
Questo è il motivo per cui, fin dall’inizio, i sionisti non hanno mai edificato normali habitat umani, ma bastioni con mura e torri di guardia, offuscando la differenza tra civili e soldati nella comunità dei coloni.
Per un breve periodo gli insediamenti sionisti ottennero il riconoscimento dei movimenti socialisti e comunisti in tutto il mondo, perché erano luoghi in cui il comunismo veniva sperimentato da fanatici senza successo. La natura di questi insediamenti, tuttavia, ci dimostra fin dai suoi esordi, cosa significasse il sionismo per il paese e la sua gente.
Chi arrivava come sionista, nella speranza di trovare una terra vuota, o determinato a renderla tale, veniva arruolato in una società militare di coloni, che avrebbe potuto realizzare il sogno della terra vuota solo attraverso la forza.
La popolazione nativa rifiutò, secondo le parole di Theodore Herzl, l’offerta di essere “portata via” in altri paesi.
Nonostante l’enorme delusione per il ritiro britannico, e l’abbandono delle iniziali promesse di rispetto e sostegno al diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli arabi, i palestinesi ancora speravano che l’Impero li avrebbe protetti dal progetto sionista di sostituzione e sfollamento.
Negli anni ’30 i leader della comunità palestinese avevano ormai compreso che non sarebbe andata così. Erano scoppiate le ribellioni, brutalmente schiacciate dall’Impero che avrebbe dovuto proteggerli, secondo il “mandato” ricevuto dalla Società delle Nazioni.
Ma l’Impero, invece, era rimasto a guardare, anche mentre il movimento dei coloni iniziava un’enorme operazione di pulizia etnica nel 1948, quella che ha portato all’espulsione di metà della popolazione nativa durante la Nakba
Dopo la catastrofe, tuttavia, la Palestina era ancora abitata da molti palestinesi, e gli espulsi, allora come oggi, hanno sempre rifiutato di accettare qualsiasi altra identità e lottano per il loro diritto al ritorno.
Mantenere vivo il “sogno”
Chi è rimasto nella Palestina storica non ha mai smesso di dimostrare che la terra non era vuota, e che i coloni hanno sempre dovuto usare la forza per raggiungere l’obiettivo di trasformare la Palestina araba, musulmana e cristiana, in una Palestina ebraica europea.
Con il passare degli anni è stato necessario usare sempre più forza per realizzare questo sogno europeo, a spese del popolo palestinese.
Nel 2020, abbiamo raggiunto cento anni di tentativi continui di attuare, con la forza, quell’idea di trasformare una “terra vuota” in un’entità ebraica.
Inoltre, sia per ragioni democratiche che teocratiche, non c’è alcun consenso ebraico riguardo questa parte della “visione” sionista.
Miliardi e miliardi dei contribuenti americani sono stati, e sono tuttora, necessari per mantenere il sogno di una terra deserta in Palestina, e sostenere l’inflessibile progetto sionista di realizzarlo.
Per tenere vivo il sogno è stato necessario impiegare quotidianamente un repertorio senza precedenti di violenza spietata contro i palestinesi, i loro villaggi e le loro città, e contro l’intera Striscia di Gaza.
L’enorme costo umano pagato dai palestinesi per questo progetto fallimentare, ad oggi ammonta a circa 100.000 persone.
Il numero di palestinesi feriti e traumatizzati è talmente alto, che ogni famiglia palestinese ha almeno un membro, che sia un bambino, una donna o un uomo, incluso in questa lista.
La nazione palestinese, il cui capitale umano ha mosso economia e cultura in tutto il mondo arabo, è stata frammentata, impedendole di sfruttare questo incredibile potenziale a proprio vantaggio.
È questo il contesto della politica genocida che Israele sta attuando a Gaza, e della campagna di uccisioni senza precedenti in Cisgiordania.
Solo democrazia?
Questi tragici eventi sollevano, ancora una volta, l’enigma: come possono l’Occidente e il Nord del mondo affermare che questo violento progetto di tenere milioni di palestinesi sotto oppressione, sia portato avanti dall’unica democrazia del Medio Oriente?
E ancora più importante, perché tanti sostenitori di Israele, e gli stessi ebrei israeliani, credono che questo sia un progetto sostenibile nel 21° secolo?
La verità è che non è sostenibile.
Il problema è che distruggerlo può diventare un processo lungo e sanguinoso, le cui principali vittime sarebbero i palestinesi.
Non è nemmeno chiaro se i palestinesi siano pronti a subentrare, come movimento di liberazione unito, dopo le fasi finali di disintegrazione del progetto sionista.
Riusciranno in futuro a scrollare via il senso di sconfitta, e ricostruire la loro patria come un paese libero per tutti?
Personalmente ho grande fiducia nella giovane generazione palestinese, sarà in grado di farlo.
Quest’ultima fase potrebbe essere meno violenta; potrebbe essere più costruttivo e produttivo per entrambe le società, dei coloni e dei colonizzati, se il mondo intervenisse ora.
Se molte nazioni smettessero di far infuriare milioni di persone, continuando a sostenere che un progetto vecchio di un secolo, mirato a svuotare una terra dai popoli indigeni con la forza, è un progetto che rispecchia una democrazia illuminata e una società civile.
Se questo accadesse, gli americani potrebbero smettere di chiedersi “Perché ci odiano?”.
Gli ebrei di tutto il mondo non sarebbero costretti a difendere il razzismo ebraico utilizzando come armi l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto.
Si spera che anche i cristiani sionisti ritornino ai precetti umani fondamentali, quelli che il cristianesimo rappresenta, e che si uniscano in prima linea alla coalizione determinata a fermare la distruzione della Palestina e del suo popolo.
Le multinazionali, le società di sicurezza e le industrie militari, ovviamente, non si unirebbero a una nuova coalizione che si oppone al progetto di svuotamento del territorio. Ma, tuttavia, potrebbero essere contestati.
L’unico requisito necessario è che noi, popolo pieno di risorse, che ancora crede nella moralità e nella giustizia e che si erge a faro in quest’epoca di oscurità, possiamo comprendere davvero che fermare il tentativo di svuotare la Palestina è l’inizio di una nuova era, di un futuro e un mondo migliore per tutti.
Traduzione di Cecilia Parodi. Leggi l’articolo in inglese qui.
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