‘Un bambino israeliano vale più di un bambino di Gaza’ – Lo scioccante striscione del Maccabi Haifa

Dia Saba con la maglia dal Maccabi Netanya nel 2018. (Photo: Adir Benyamini, via Wikimedia Commons)

By Calcio e Rivoluzione

Anche la favoletta del calciatore palestinese che gioca in Israele e che difende i colori di quella Nazione non potrà mai riuscire nell’intento di descrivere una società israeliana diversa.

Il 20 luglio scorso, in occasione della partita tra il Maccabi Haifa e l’Hapoel Beer Sheva, valida per i play-off di Toto Cup, la coppa nazionale israeliana, il centrocampista offensivo Dia Saba ha fatto ufficialmente il suo ritorno in campo con la maglia bianco-verde dei padroni di casa a distanza di dieci mesi.

Subentrato al compagno di squadra Dean David al 65° del secondo tempo, è andato a segno appena cinque minuti dopo, fissando il risultato finale sul 3 a 0 grazie al quale il Maccabi Haifa ha staccato il pass per la semifinale.

Il calciatore palestinese, nato a Majd al-Krum, cittadina araba nel nord della Galilea, che conta una ventina di presenze nelle selezioni nazionali israeliane, ha rappresentato – per una grandissima parte della sua carriera – il simbolo perfetto o “improbabile” (come recitava un titolo di Haaretz nell’agosto 2023) a seconda dei punti di vista, della convivenza tra arabi ed israeliani.

Quale miglior spot per affermare l’inclusività e la multiculturalità di uno Stato se non quello in cui il protagonista è un cittadino palestinese che gioca a calcio per la Nazionale di Israele, idolatrato dai 30.000 supporters che ogni settimana occupano i gradoni del Sammy Ofer, stadio del Maccabi Haifa, nel nord di Israele?

Sarà stato questo, probabilmente, il motivo – assieme alle indubbie qualità tecniche del calciatore – ad aver spinto la società di Haifa ad acquistarlo nell’estate del 2022 e a renderlo il calciatore più pagato dell’intera rosa nonché il più costoso di tutto il campionato israeliano (3,5 milioni di euro secondo Transfermarkt).

Calciatore che, come dicevamo, però, non collezionava una presenza con il Maccabi Haifa dallo scorso ottobre quando era stato messo fuori rosa prima di essere ceduto in prestito, nella finestra invernale del mercato, all’Emirates Club – la squadra degli Emirati Arabi dove gioca – tra gli altri – Andrés Iniesta. Una cessione che non è stata legata né a motivi economici né tantomeno a questioni tecniche quanto piuttosto a “problemi ambientali”.

Dia Saba, infatti, all’indomani del 7 ottobre 2023, nel giro di poche ore, è passato dall’essere il simbolo della “coesistenza” tra arabi ed israeliani a personaggio decisamente impopolare tra i tifosi del Maccabi e – più in generale – tra gli israeliani.

Ma cosa ha reso Dia Saba un personaggio così odiato in Israele, capace di alterare anche l’equilibrio di un club come il Maccabi Haifa che, a differenza di altre squadre israeliane (come ad esempio il Beitar di Gerusalemme) era conosciuta anche al di fuori dei confini nazionali per il suo multiculturalismo?

La “colpa” del calciatore è, in realtà, da rintracciare in un post condiviso da sua moglie – Narim – su Instagram in risposta alla controffensiva israeliana che, nella settimana successiva al 7 ottobre, aveva già provocato la morte di più di 5mila persone a Gaza.

“Ci sono bambini anche a Gaza”, questo il post della discordia.

Un post di “genuina umanità”, che ha però provocato la ferma reazione della tifoseria del Maccabi Haifa, che ha preso di mira i profili social di Saba e di sua moglie riempiendoli di messaggi d’odio.

Quelle stesse persone che, qualche giorno prima, avevano celebrato il calciatore che era andato sotto la curva per festeggiare la vittoria nel derby contro l’Hapoel Haifa. E a nulla è servito che lo stesso Saba, qualche giorno dopo, abbia chiesto persinoscusa, con un post Instagram: “Pensava (mia moglie ndr) di trasmettere un messaggio di riconciliazione e di pace. Lo ha fatto in buona fede, ma ha sbagliato e di questo mi dispiace”.

Alla prima gara disputata dal Maccabi Haifa alla ripresa dopo lo stop forzato dovuto alle operazioni militari israeliane sul territorio palestinese, Saba non c’era. Stesso discorso nelle successive 19 partite. Come riferito da Dudu Bazak, portavoce della squadra, del resto, le priorità del club erano le vittime israeliane e il sostenere lo sforzo bellico: “Il club deve concentrarsi oggi più che mai sulla comunità, sui tifosi e sulle famiglie i cui figli sono stati uccisi, e rafforzare i soldati al fronte”.

Ma la società di Haifa non era l’unica a ritenere il calciatore colpevole. Anche la tifoseria, i commentatori sportivi così come l’opinione pubblica avevano già emesso la propria sentenza: colpevole!

Altrimenti perché non aveva condannato pubblicamente l’operazione di Hamas, o aggiunto qualcosa al post di sua moglie? Reputava le vite palestinesi più importanti di quelle israeliane? Sono le domande più ricorrenti che la maggior parte della tifoseria israeliana si è fatta ed ha fatto, come sottolineato da Zouheir Bahloul, noto commentatore sportivo. Situazione che ha confermato come gli israeliani spesso e volentieri tendano a giudicare negativamente (per usare un eufemismo) i calciatori arabi che non condannano abbastanza duramente gli attacchi “terroristici” (intendendo gli atti di resistenza) o che mostrano più empatia verso le vittime palestinesi che verso quelle israeliane.

Saba è, quindi, senza dubbio, colpevole agli occhi di questi tifosi.

Non c’è tanto da discutere. Semmai da prendere posizione. Ed è quel che fa Yaniv Katan, ex stella del Maccabi Haifa e forse il giocatore più popolare di tutta la storia della squadra, durante il suo programma radiofonico: “La mia opinione è che Saba non dovrebbe mai più indossare la maglia del Maccabi Haifa. Saba, vai in Turchia, vai in Qatar lì ti accoglieranno a braccia aperte.” E non deve essere stato l’unico a pensarla così se, effettivamente, come visto, a gennaio il calciatore è stato frettolosamente ceduto in prestito negli Emirati Arabi.

Una storia che nella sua “banalità” ci dimostra quanto sia esclusivamente di facciata ed estremamente debole la narrazione secondo cui la società israeliana sarebbe democratica, aperta e tollerante.

È bastato un tentennamento di quello che, fino a qualche ora prima, era il simbolo indiscusso della “integrazione” tra arabi ed israeliani per fare crollare il castello di carta costruito ad hoc dalle istituzioni israeliane, che aveva come unico obiettivo accattivarsi anche quella parte più progressista e di sinistra della società e dimostrare che Israele pone sullo stesso piano i cittadini ebrei e quelli arabi.

Quella stessa parte di società che si racconta, e ci viene raccontata, come progressista, ma che dopo il 7 ottobre si è dimostrata molto più vicina di quanto volesse fare credere alla maggioranza conservatrice e di destra della società.

Anche perché viene abbastanza difficile credere che non si conoscano tutte le atrocità che Israele ha commesso e sta commettendo tanto in Palestina quanto nei Territori Occupati della Cisgiordania.

In un contesto del genere appare evidente che anche la favoletta del calciatore palestinese che gioca in Israele per la squadra emblema della multiculturalità di tutto un Paese e che difende i colori di quella Nazione, non potrà mai riuscire nell’intento di descrivere una società israeliana diversa.

La prosecuzione della storia ne è la concreta conferma: sono le 19:30 di sabato 18 agosto 2024 quando il Maccabi Haifa scende in campo per la semifinale di Toto Cup contro il Netanya.

Dagli spalti, la tifoseria di casa espone uno striscione che non lascia spazio a dubbi, e conferma quello che è, ed è importante sottolinearlo, il pensiero non solo di Benjamin Netanyahu e del suo governo ma anche della stragrande maggioranza della popolazione israeliana: “un bambino israeliano vale (più di un) bambino di Gaza”, utilizzando il simbolo matematico “>”, che indica “maggiore di”, in chiaro riferimento al post della moglie di Dia Saba.

La tifoseria del Maccabi Haifa non ha dimenticato e difficilmente dimenticherà. Al centrocampista offensivo non erano bastate le scuse e non basterà la doppietta realizzata – che ha regalato la finale alla squadra bianco-verde – per tornare ad essere nuovamente l’idolo di casa, né tanto meno ad essere un simbolo spendibile da Israele per continuare a fingere di essere una società aperta e tollerante.

Dalle parti di Tel Aviv, ma anche di Haifa, funziona così: o si sostengono sempre e comunque le ragioni e le azioni di Israele (anche un genocidio che ha tolto la vita ad oltre 40.000 persone tra cui 16.500 bambini) o si è automaticamente un nemico dello Stato, un fiancheggiatore del terrorismo se sei arabo, un antisemita se sei europeo.

Così funziona in quella che in tanti ancora osano definire la più grande e compiuta democrazia del Medio Oriente…

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