Perché la comunità LGBTQIA+ ha il dovere di supportare la causa palestinese

Il Pride a Tel Aviv. (Photo: US Embassy Tel Aviv, via Wikimedia Commons)

By Gianluca Grimaldi

Il pinkwashing di Israele è un tentativo cinico di normalizzare il suo radicato regime di apartheid che “discrimina, espropria e subordina tutti i palestinesi, queer e non queer.”

L’idea che l’oppressione possa avere una molteplicità di strati, e che discriminazioni che appaiono diverse possano avere una matrice comune, pone un grande interrogativo a livello morale: se appartengo a una minoranza oppressa, il lottare per i diritti della mia minoranza esige che io lotti anche per quelli delle altre?

Dare una risposta a questa domanda è complesso, perché presuppone una conoscenza approfondita di come i gruppi oppressi, e le diverse discriminazioni subite, siano sovrapposti gli uni agi altri. Così, nel corso degli anni, l’intersezionalità è stata studiata e sviscerata. Tuttavia, le varie forme di attivismo hanno gradualmente abbracciato l’idea di una lotta comune che fosse solidale a tutte le minoranze oppresse.

Il concetto semplificato al minimo è che una discriminazione può basarsi su più elementi, che la violazione di un diritto è correlata a quella degli altri diritti, e che i sistemi di oppressione hanno matrici comuni. Certo, non sempre questo meccanismo si è snodato senza intoppi: l’esempio più palese è quello delle femministe trans-escludenti.

Ma un altro caso emblematico è la lotta per i diritti LGBTQIA+ che, nel corso degli anni, si spesso è legata a una concezione molto occidentale e semplicistica della questione. Così, chi lotta per tali diritti, ha iniziato a considerare come alleati quei Paesi che riconoscono o sembrano riconoscere più tutele alle persone LGBTQIA+, e come avversari quelli che non lo fanno.

Ma si ignora che questi ultimi, spesso, vengono oppressi dai primi attraverso meccanismi come colonialismo, imperialismo, neoimperialismo, occupazione e che sono proprio questi a limitare la possibilità di un progressismo. Insomma, se non si permette a un Paese di essere completamente libero, come è possibile che si abbiano quei mutamenti sociali che portano al riconoscimento più completo delle libertà individuali?

A essere ignorati sono poi altri importanti principi: l’oppressione può manifestarsi in diverse forme e, se si opprime un gruppo sulla base di criteri diversi da quelli LGBTQIA+, nel gruppo oppresso possono rientrare però anche persone queer; il riconoscimento istituzionale di un diritto non sempre risulta effettivo e reale in quanto le sfumature sono innumerevoli e, quindi la previsione di un determinato diritto non può determinare la configurazione di uno Stato come avanzato; infine, la comunità LGBTQIA+ può essere strumentalizzata da un Paese per apparire superiore ad altri, occultando così la persecuzione sistematica di una minoranza. È il caso di Israele.

Nel corso degli ultimi mesi, il profilo Instagram ufficiale dell’IDF, le forze militari israeliane, ha pubblicato foto in cui un soldato sventolava una bandiera arcobaleno a Gaza, un’altra in cui un soldato chiedeva al suo partner di sposarlo. Queste foto sono state pubblicate nel corso di un’offensiva militare che, dal 7 ottobre 2023 ad oggi, ha visto l’uccisione di oltre 33.000 palestinesi nella striscia di Gaza.

La pubblicazione di foto del genere, nel corso di un’operazione militare massiva in cui i diritti umani vengono sistematicamente violati, non può che rappresentare una forma di propaganda che suggerisce la superiorità, proprio in termini di diritti, di una parte rispetto all’altra al fine di legittimarne l’oppressione.

Ma non è la prima volta che Israele ricorre a questo stratagemma.

Era il 2011 quando Sarah Schulman, in un articolo comparso sul The New York Times, utilizzava la parola pinkwashing per descrivere la falsa apparenza, di cui si circonda lo stato di Israele, di paese aperto ai diritti LGBTQIA+ così da distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani commessi. Durante il mese del Pride, basta aprire un social qualsiasi per vedere la Home invasa da foto di persone, da tutto il mondo, che partecipano al Pride di Tel Aviv, da anni sponsorizzato come unico Pride del Medio Oriente, frase che fa un po’ da eco all’epiteto di unica democrazia del Medio Oriente di cui Israele si circonda e che molti Stati occidentali gli attribuiscono.

Una prima cosa da sottolineare è che Israele non è poi un Paese tanto aperto dal punto di vista dei diritti LGBTQIA+. Il matrimonio omosessuale (così come anche il matrimonio civile eterosessuale, se non nel raro caso di nessuna appartenenza a comunità religiose) non esiste e solo quello contratto all’estero può essere registrato. Solo la città di Tel Aviv riconosce coppie non sposate, comprese quelle omosessuali, come unità familiari.

In generale, la religione ha un enorme peso tanto nelle istituzioni quanto nella società israeliana e, secondo una ricerca del Pew Research Center, il 56% della popolazione israeliana si oppone al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tanti sono, inoltre, i casi di politici che hanno e diffondono ideologie omofobe: il più noto è quello di Bezalel Yoel Smotrich, ministro delle finanze, che ritiene l’omosessualità anormale e ha definito i pride peggio della bestialità.

Un altro aspetto importante su cui gioca il pinkwashing è la contrapposizione con altri luoghi o culture dove, invece, i diritti non vengono rispettati o riconosciuti. In particolare, si fa spesso una contrapposizione con quanto previsto nei territori palestinesi, ossia in Cisgiordania e nella striscia di Gaza.

Ma, in entrambi i luoghi, la regolamentazione penale dell’omosessualità è stata esportata dal Regno Unito, quindi dall’occidente, durante l’epoca coloniale attraverso il British Mandate Criminal Code. In Cisgiordania, si ritiene che la depenalizzazione sia avvenuta con l’annessione giordana del 1951, anche se ufficialmente vi sarebbe una lacuna legislativa dell’Autorità Nazionale Palestinese sul tema.

A Gaza vi sono opinioni discordanti circa la validità della criminalizzazione dell’omosessualità prevista da questo codice che, secondo Human Rights Watch, sarebbe ancora formalmente in vigore mentre, secondo altre organizzazioni come Amnesty International, non sarebbe più applicabile. In generale, il susseguirsi di occupazioni e amministrazioni diverse rende molto frammentata e confusa la regolamentazione dell’omosessualità.

A prescindere, però, dall’effettivo stato legale e sociale dell’omosessualità nei territori palestinesi, è la strumentalizzazione del tema a rappresentare un problema nel supporto della comunità LGBTQIA+ a Israele. Proporsi come uno stato che supporta le minoranze quando, in realtà, si opprime una minoranza è un meccanismo inaccettabile.

In un articolo comparso sul quotidiano Independent nel 2019, in occasione dell’Eurovision nel Paese, si sottolineava come la narrativa israeliana tendesse a costruire una falsa opposizione, ribadendo inoltre come “dal punto di vista della liberazione collettiva, le lotte per la liberazione queer e palestinese sono inseparabili”.

Nell’articolo, si legge poi che questa narrativa “non costituisce solo propaganda che rende il sionismo più attraente per i gruppi queer, a volte anche suscitando un sostegno diretto al regime di apartheid israeliano. È anche una forma di violenza contro i queer palestinesi, che rende invisibili tutte le forze progressiste all’interno della Palestina, compresa la cancellazione dei risultati del movimento palestinese queer. Questa narrazione incoraggia i palestinesi LGBT+ a credere che le loro famiglie, la società e gli amici li rifiuteranno sempre e non c’è speranza di sfidare l’omofobia, qualcosa che esiste anche in Israele, nonostante gli sforzi per nasconderla.

Soprattutto, il pinkwashing di Israele è un tentativo cinico di normalizzare il suo radicato regime di apartheid che “discrimina, espropria e subordina tutti i palestinesi, queer e non queer.”. Una forma di violenza, quella israeliana, che andrebbe quindi a impedire ogni forma di liberazione queer palestinese minando diritti alla base della liberazione stessa.

E, infatti, Israele non si limita a fare una finta propaganda facendosi portavoce di diritti che non concede, ma arriva a violare questi stessi diritti: una violazione (quella dei diritti LGBTQIA+) nella violazione (l’oppressione del popolo palestinese).

Nel 2014 un’inchiesta di Haaretz, uno dei principali quotidiani israeliani, ha fatto emergere come l’IDF avesse ricattato alcuni palestinesi della Cisgiordania, minacciando di rivelare la loro omosessualità, Si tratta dell’esempio più evidente di come un sistema di oppressione vada di fatto a opprimere una minoranza di cui fanno parte soggetti parte anche di un’altra minoranza, in questo caso quella LGBTQIA+: si ha una concatenazione di diritti che rende incoerente il sostenere gli uni (i diritti LGBTQIA+) negando gli altri (la causa palestinese).

Per questo, lottare per i diritti LBTQIA+, ovunque nel mondo, non può realizzarsi in modo pieno e coerente senza anche un supporto alla causa palestinese. È lo stesso principio espresso nella lettera Queer Artists for Palestine di un collettivo internazionale di artisti che si impegnano a non partecipare a pubblici eventi in Israele finché non ci sia liberazione per i palestinesi. Nella lettera si legge che “i palestinesi ci ricordano che nessuno di noi è libero finché non siamo tutti liberi”.

Libertà correlate, così che una lotta sociale non abbia senso di esistere se ne esclude un’altra ugualmente legittima. Un principio universale che avrebbe dovuto guidarci ben prima degli eventi successivi al 7 ottobre 2023, per tutti i decenni di occupazione e apartheid che la comunità palestinese ha subito. Da Stonewall a Gaza, il desiderio di libertà e autodeterminazione è sempre stato solo uno.

- Gianluca Grimaldi è un giornalista pubblicista. Ha collaborato con TPI, Repubblica e Inside Over, occupandosi di esteri e diritti umani. Ha contribuito questo articolo al Palestine Chronicle Italia.

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