
By Ramzy Baroud
A Napoli i simboli palestinesi sono ovunque, permeano il tessuto della città come se la Palestina fosse la principale preoccupazione politica per l’intera popolazione della regione.
Raramente visito Roma senza fermarmi a Campo de’ Fiori per rendere omaggio a Giordano Bruno, un filosofo italiano che nel 1600 fu brutalmente bruciato sul rogo dall’Inquisizione romana. Il suo crimine fu quello di osare sfidare dogmi consolidati e pensare liberamente a Dio e alla natura infinita dell’universo.
Mentre ero fermo sotto la sua imponente statua, un improvviso trambusto ha rotto il silenzio, crescendo di volume man mano che un folto gruppo di manifestanti si avvicinava. Decine di persone di tutte le età battevano pentole e padelle con fervente urgenza.
Dopo lo shock iniziale e la successiva confusione, è diventato chiaro che la protesta era un tentativo urgente di risvegliare le persone dall’orribile carestia in corso a Gaza. In pochissimo tempo, altre persone si sono unite spontaneamente, alcune battendo le mani, essendo arrivate impreparate. I camerieri delle osterie della piazza hanno iniziato istintivamente a battere le mani su qualsiasi cosa potesse produrre un suono, aggiungendo al crescente clamore.
La piazza è rimasta ferma per qualche minuto, battendo colpi all’unisono, prima che i manifestanti marciassero verso un’altra piazza, il loro numero visibilmente in aumento a ogni passo.
Nelle vivaci strade di Roma, le bandiere palestinesi erano le uniche bandiere straniere a occupare gli spazi pubblici. Pendevano dai lampioni, erano incollate sui segnali stradali o sventolavano con orgoglio in cima ai balconi.
Nessun altro paese, nessun altro conflitto, nessun’altra causa ha permeato gli spazi pubblici così profondamente come quella palestinese. Sebbene questo fenomeno non sia del tutto nuovo, la guerra e il genocidio israeliano in corso a Gaza hanno innegabilmente amplificato questa solidarietà, spingendola con forza oltre i confini tradizionali di classe, ideologia e linee politiche.
Eppure, nessun altro luogo in Italia può davvero essere paragonato a Napoli. I simboli palestinesi sono ovunque, permeando il tessuto della città come se la Palestina fosse la principale preoccupazione politica per l’intera popolazione della regione.
Ciò che era particolarmente affascinante della solidarietà con i palestinesi in questa vivace città non era solo l’enorme quantità di graffiti, poster e bandiere, ma i riferimenti molto specifici a martiri, prigionieri e movimenti palestinesi.
Immagini di Walid Daqqa, Shireen Abu Akleh e Khader Adnan, insieme a richieste precise che sarebbero state considerate, al di fuori della Palestina, in gran parte sconosciute a un pubblico globale, erano esposte in modo prominente.
Come ha fatto Napoli a diventare così intimamente sintonizzata su questo discorso palestinese? Questa domanda vitale risuona ben oltre l’Italia, applicandosi a numerose città in tutto il mondo. In particolare, questo importante cambiamento nella comprensione più profonda della lotta palestinese e l’ampio abbraccio del popolo palestinese si stanno svolgendo, nonostante il pervasivo e implacabile pregiudizio dei media a favore di Israele e la persistente intimidazione da parte dei governi occidentali nei confronti degli attivisti pro-Palestina.
In politica, la massa critica si raggiunge quando un’idea, inizialmente sostenuta da un gruppo di minoranza, si trasforma in modo decisivo in una questione mainstream. Questo cambiamento cruciale le permette di superare il simbolismo e iniziare a esercitare un’influenza reale e tangibile nella sfera pubblica.
In molte società in tutto il mondo, la causa palestinese ha già raggiunto quella massa critica. In altre, dove la repressione governativa soffoca ancora il dibattito alle sue radici, la crescita organica continua comunque, promettendo così un cambiamento inevitabile e fondamentale.
Ed è proprio questa la paura che tormenta numerosi israeliani, specialmente all’interno delle loro classi politiche e intellettuali. Scrivendo sul quotidiano israeliano Haaretz il 25 luglio, l’ex primo ministro Ehud Barak ha suonato ancora una volta l’allarme. “La visione sionista sta crollando”, ha scritto, aggiungendo che Israele è “bloccato in una ‘guerra di inganno’ a Gaza”.
Sebbene la pervasiva macchina della Hasbara di Israele si stia sforzando incessantemente di arginare il crescente flusso di solidarietà con la Palestina e la crescente ondata di rabbia contro i presunti crimini di guerra israeliani, per ora il suo focus rimane saldamente fisso sul complicare lo sterminio di Gaza, anche a caro prezzo della condanna e dell’indignazione globale.
Tuttavia, quando la guerra sarà finalmente finita, Israele impiegherà senza dubbio i suoi massimi sforzi, usando numerosi nuovi modi creativi per demonizzare ancora una volta i palestinesi e innalzare se stesso, la sua cosiddetta democrazia e il ‘diritto di difendersi’.
A causa della crescente credibilità internazionale della voce palestinese, Israele sta già ricorrendo all’uso di palestinesi che difendono indirettamente Israele incolpando Gaza e tentando di interpretare il ruolo della vittima per ‘entrambe le parti’. Questa tattica insidiosa è destinata a crescere in modo esponenziale in futuro, poiché mira direttamente a creare una profonda confusione e a mettere i palestinesi l’uno contro l’altro.
I palestinesi, gli arabi e tutti i sostenitori della giustizia in tutto il mondo devono cogliere urgentemente questa opportunità critica per sconfiggere definitivamente la Hasbara israeliana. Non devono permettere che le bugie e l’inganno di Israele definiscano ancora una volta il discorso sulla Palestina sulla scena globale.
Questa guerra deve essere combattuta ferocemente ovunque, e non un singolo spazio deve essere concesso: né un parlamento, né un’università, né un evento sportivo, né un angolo di strada.
Giordano Bruno ha sopportato una morte orribile e dolorosa, eppure non ha mai abbandonato le sue profonde convinzioni. Nel movimento di solidarietà con la Palestina, anche noi non dobbiamo vacillare dalla lotta per la libertà palestinese e la responsabilità dei criminali di guerra, indipendentemente dal tempo, dall’energia o dalle risorse richieste.
Ora che la Palestina è finalmente diventata la causa globale incontrastata, l’unità totale è fondamentale per garantire che la marcia verso la libertà continui, in modo che il genocidio di Gaza diventi il capitolo finale e agonizzante della tragedia palestinese.

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