In questa intervista onesta ed aperta, mi ha raccontato il dolore che nei decenni ha dovuto osservare e mi ha aiutato a comprendere, attraverso la sua esperienza, cosa è cambiato nel tempo.
Nella mia vita, ho condotto numerose interviste, ma questa è sicuramente quella che lascerà una traccia indelebile. È stata spietata ed umana allo stesso tempo.
Monica Maurer è una regista tedesca di fama mondiale, una donna che ha conosciuto il dolore e la devastazione delle guerre. Mettendo a frutto la sua incredibile umanità e professionalità, è riuscita a documentare attraverso numerose pellicole la violazione dei diritti umani in Palestina, Libano e non solo.
In questa intervista onesta ed aperta, mi ha raccontato il dolore che nei decenni ha dovuto osservare e mi ha aiutato a comprendere, attraverso la sua esperienza, cosa è cambiato nel tempo, in merito alla causa palestinese, nonostante il cinismo della società moderna.
L’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, che custodisce il Fondo Monica Maurer, raccoglie sia film finiti, sia sequenze non montate della sua produzione cinematografica, prevalentemente inerenti la rivoluzione palestinese in Libano e Palestina.
Attraverso le sue opere, Maurer ha donato a tutti noi e alle generazioni future un vero e proprio patrimonio storico per l’umanità.
In questi giorni, si trova a Parigi per la nona edizione del cinema palestinese il Festival Cine Palestine, dal 2 al 18 giugno, dove verrà proiettato il suo straordinario film Yom al-Ard.
“La Palestina sta vivendo una situazione drammatica. Subisce oramai attacchi continui, soprattutto con questo governo di estrema destra, che attua, senza alcun ritegno, una quotidiana caccia ai bambini,” ci dice Maurer, che aggiunge.
“Vi sono immagini scioccanti ogni giorno. Basti pensare all’omicidio della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, avvenuto lo scorso anno, uccisa da un colpo alla testa sparato da un cecchino israeliano. Si parla spesso di comunità internazionale, oggi vorrei capire perché non insistano per l’applicazione reale delle leggi internazionali appunto.”
Le chiedo subito se, durante la sua carriera sempre volta alla denuncia, ci sia un film in particolare che l’ha messa a dura prova.
“Il film più duro è stato certamente Why?,” mi risponde senza esitazioni.
“Durante le riprese, gli spostamenti erano molto pericolosi. Ma soprattutto, ciò che si manifestava ai nostri occhi fu devastante,” ci spiega.
“La parte più dura nel cinema è senza dubbio il montaggio, perché sei costretto a vedere e rivedere scene raccapriccianti nell’impossibilità di scappare. Fui irremovibile, decisi di farlo uscire quanto prima perché si trattava di una denuncia importante. Il film venne montato in due mesi, mi capitò spesso di dare di stomaco in quei giorni.
“Non riuscivo a mangiare. Era terribile, non solo per le immagini atroci ma per un conflitto interiore da cineasta: sentivo forte la responsabilità ed era difficile comprendere quanto fare vedere e quanto no.”
Maurer ci spiega che “all’interno di questo film non si vede neanche il 10 per cento di ciò che i miei occhi hanno visto. Penso al fosforo e ai danni che fece.
“Per me fu fondamentale renderlo visibile a tutti, eseguii il montaggio a Cinecittà, a Roma. Avendo un ottimo rapporto con i tecnici colsi l’occasione per chiedere loro un parere, visto che erano imparziali e politicamente neutrali. Ebbene, posso dirti che rimasero scioccati. Non riuscivano ad accettare quella follia militare nel vedere immagini di persone che morivano agonizzanti a causa dell’uso delle bombe al fosforo.”
Chiedo a Maurer quanti anni avesse quando si è innamorata del cinema.
“Non si è trattato di un innamoramento, fu piuttosto un bisogno personale di fare qualcosa di utile, se non ricordo male avevo quindici anni,” mi spiega.
“Cominciai documentando la vita degli immigrati in Germania che venivano chiamati ‘lavoratori ospiti’, una cinica falsificazione del senso del reale, perché gli immigrati erano tutt’altro che ospiti, come purtroppo accade ancora oggi in Italia. Erano i più sfruttati e sottopagati, privati del riconoscimento dei loro diritti civili e culturali.”
“Diciamo che fu, più che altro una reazione, a una situazione politica e sociale inadeguata. Ai miei tempi, vi erano voglia e speranza di cambiare le cose. Mi sento una privilegiata per avere vissuto in prima persona quel periodo storico, dettato da una visione collettiva se vuoi anche utopica per un futuro cambiamento.”
La domanda mi sorge spontanea e le chiedo se sente che la spinta propulsiva di quell’utopia si sia interrotta.
“Direi che è evidente! Basta guardarsi un po’ intorno,” mi risponde.
“C’è una vera e propria offensiva a qualsiasi narrazione che voglia influire sulla vita politica e culturale. Sono riusciti a creare una sorta di tappo che ostruisce l’esercizio della memoria collettiva e della cultura popolare.”
Maurer mi dice che, a suo avviso, la scuola potrebbe ricoprire un ruolo fondamentale per colmare questo vuoto. Le chiedo, quindi, se vi sia un suo film che potrebbe essere proiettato nelle scuole.
“Sicuramente Children of Palestine, girato nel 1979 appositamente per la giornata mondiale del fanciullo,” mi dice.
“Divenne infatti il video ufficiale che provava le violazioni ai danni dei bambini palestinesi, violati dei dieci diritti fondamentali.”
“Scelsi di rimanere amica dei bambini protagonisti del documentario,” mi spiega Maurer.
“Non sopporto chi ruba le immagini e poi se ne va, non è un atteggiamento corretto per chi gira un documentario. Bisogna entrare sotto la loro pelle e andare oltre le apparenze.”
Chiedo a Maurer cosa ne pensi della continua distorsione nella narrazione degli eventi e nel linguaggio utilizzato. Penso, ad esempio, all’uso distorto del termine Jihad da parte della stampa tradizionale.
“Questo atteggiamento fa parte della criminalizzazione ed è una tattica utilizzata per demolire la figura dell’avversario,” mi spiega.
“Come spiega lo storico e intellettuale israeliano Ilan Pappé, non esiste altro Paese al mondo che abbia violato così tante risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU come ha fatto, sino ad oggi Israele. Eppure, si parla costantemente di altro”.
Rifletto su come sia difficile riuscire a parlare di questi temi in questo contesto di deformazione della verità e di palese censura. Le chiedo, quindi, se il suo lavoro sia mai stato censurato.
“Se tu sei contro corrente, è normale che la corrente stessa cerchi di schiacciarti,” mi risponde, decisa.
“Io iniziai lavorando in televisione, ma capii subito che non ero libera di muovermi. Questo avviene perché i media sono incastrati in sistemi di potere che non accettano narrazioni differenti. Oggi, poi, sarebbe ancora impossibile, vista l’imposizione palese e violenta del pensiero unico.”
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