By Romana Rubeo
Domenica 17 settembre, il giornale Elaph ha pubblicato un rapporto secondo cui i sauditi avrebbero riferito agli USA che i dialoghi per la normalizzazione sono sospesi vista l’indisponibilità del governo israeliano di estrema destra di raggiungere un accordo con i palestinesi.
L’analisi che vi proponiamo era stata scritta dalla caporedattrice del Palestine Chronicle, Romana Rubeo, all’indomani di un rapporto del Wall Street Journal che dava la normalizzazione come ormai vicina e che oggi è stato smentito da Elaph. Secondo fonti ufficiali citate dal giornale, infatti, le informazioni fornite al WSJ sarebbero state false piste fornite dal ministro israeliano Ron Dermer per mettere pressione sui sauditi.
Nel pomeriggio del 29 agosto, il Wall Street Journal ha pubblicato un dettagliato rapporto a firma di Dion Nissenbaum e Summer Said, con un titolo altisonante: “Nuovo passo verso l’accordo con Israele, l’Arabia Saudita offre di ripristinare i fondi all’Autorità Nazionale Palestinese.
Secondo il quotidiano statunitense, il regno saudita starebbe ricercando l’approvazione dell’ANP e dell’ottuagenario Mahmoud Abbas per mettere a tacere, o quanto meno attutire, le critiche che pioverebbero su Riad nel caso dell’avvio di rapporti diplomatici con Israele, vista l’impopolarità di una simile decisione nel mondo arabo.
Leggendo il rapporto, i contorni delle supposte trattative appaiono, in realtà, ben più sfumati. La ripresa dei fondi – che si erano interrotti completamente nel 2021 dopo una riduzione drastica negli anni immediatamente precedenti – non sarebbe, infatti, legata direttamente al placet dell’ANP nei confronti della normalizzazione, quanto alla capacità di Abbas di, cito testualmente, “reprimere “gruppi militanti e arginare la violenza in Cisgiordania”.
Non è arrivata nessuna conferma ufficiale riguardo alla fondatezza del rapporto, che però induce ad alcune riflessioni sulla opportunità, per l’Arabia Saudita, di normalizzare i rapporti con Israele in questa fase storica.
La stagione degli ‘Accordi di Abramo’
Da un punto di vista politico, la sistematicizzazione degli accordi di normalizzazione tra Paesi arabi e Israele si avvia sotto l’era di Donald Trump, con i cosiddetti Accordi di Abramo, nel 2020. Alla sigla del primo trattato tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, sono seguite azioni simili da parte di Bahrein, Marocco e Sudan.
Queste nazioni si sono impegnate a stringere un patto di lunga durata con Israele, nonostante questo si ponesse in palese contrapposizione con i principi stabiliti dall’Iniziativa di Pace Araba che, nel 2002, fu sottoscritta da tutti i membri della Lega Araba.
L’Iniziativa, infatti, prevedeva sì una normalizzazione dei rapporti con Israele, ma poneva tre condizioni mimime: il ritiro completo dai territori occupati – Cisgiordania, Gaza, Alture del Golan e Libano ; una “soluzione equa” al problema dei rifugiati palestinesi, ai sensi della Risoluzione 194 delle Nazioni Unite; e, ultimo ma non per ordine di importanza, la costituzione di uno stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale.
La sigla di accordi di normalizzazione commerciale e diplomatica, in assenza del raggiungimento delle condizioni proposte nell’Iniziativa di Pace, è sembrata ai palestinesi, e a ragione, un tradimento in piena regola.
Tuttavia, in quel particolare momento storico, la regione mediorentale appariva come un blocco estremamente polarizzato: da una parte, l’Iran, guida del mondo sciita e acerrimo nemico di Israele; dall’altra, tutti i Paesi che si ponevano in chiave anti-Iran, primo fra tutti l’Arabia Saudita. La “minaccia iraniana”, insomma, sembrava un motivo più che sufficiente per abbandonare la causa palestinese in un mondo sicuramente meno multipolare di quello odierno.
Tuttavia, nonostante il clima sembrasse molto favorevole alla distensione dei rapporti con Tel Aviv, Riad ha continuato a esitare e a respingere le molte pressioni statunitensi.
Negli anni, si sono rincorse le voci più disparate. Nel novembre del 2020, nel momento di massima spinta degli Accordi di Abramo, i giornali israeliani diedero per certo un “incontro segreto” tra il primo ministro Benjamin Netanyahu, il Principe della Corona saudita Mohammed Bin Salman e l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo.
Il Principe Faisal bin Farhan, però, ministro degli esteri saudita, era stato pronto a smentire con un tweet: “No such meeting occurred,” scrisse, secco, confermando solo un incontro tra ufficiali americani e sauditi.
Le notizie divergenti, però, non sono cessate: in alcuni casi, i media davano la firma dei sauditi come ormai prossima; in altri casi, la normalizzazione con Riad sembrava quanto mai lontana, viste le richieste saudite di rispettare le condizioni dell’Iniziativa di Pace.
Ma durante questa estenuanate attesa da parte di Israele e degli Stati Uniti – che hanno proseguito nel solco della politica degli Accordi di Abramo anche con il successore di Trump, Joe Biden – le condizioni oggettive nella regione e nel mondo sembrano essere cambiate.
La polarizzazione mediorentale, infatti, che più di ogni altra cosa era stata l’elemento trainante della stagione della normalizzazione, ha assunto contorni sempre più sfumati, fino al raggiungimento di un accordo formale tra Arabia Saudita e Iran il 6 aprile scorso. Le due nazioni, sotto l’egida della Cina, hanno accettato di ripristinare le relazioni diplomatiche, con una mossa che ha “stabilizzato” la regione ben più degli Accordi di Abramo, che pure si ripronevano tale fine.
Il mondo che cambia
È innegabile che, dal 2020 ad oggi, molte cose siano cambiate per l’Arabia Saudita e per il mondo.
Prima di tutto, a livello interno. Il Paese ha adottato, negli ultimi anni, una vera e propria strategia di “rebranding”. Oltre al programma strategico noto sotto il nome di Saudi Vision 2030 – che tende a modernizzare il Paese e a diversificare l’economia saudita, svincolandola dalla mera dipendenza dal petrolio – l’Arabia Saudita sta facendo parlare di sé anche per altro. Basti pensare agli ingenti fondi dedicati allo sport e al calcio in particolare, che stanno già dando i loro frutti.
L’obiettivo è quello di rivalutare un’immagine fortemente compromessa su più fronti, soprattutto dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, nell’ottobre del 2018. Questo fatto, in sé, era servito agli Stati Uniti come leva per mettere ulteriormente sotto pressione il regime saudita. In più occasioni, infatti, l’arma dei “diritti umani” era stata brandita a comando per far sottostare Riad ai dettami di Washington.
Ma l’Arabia Saudita ha trovato, con il tempo, nuovi margini di manovra, soprattutto in seguito all’operazione russa in Ucraina e all’innalzamento dei prezzi di petrolio e gas. Fattori, questi, che hanno indotto Biden a dimenticare i principi di moralità più volte enunciati e a volare a Gedda, nel luglio del 2022, nel tentativo di rinsaldare l’alleanza tra i due Paesi e garantire che i rapporti commerciali restassero invariati.
Ma qui entra in gioco il secondo cambiamento importante: quello che riguarda il livello globale, con un multipolarismo sempre più accentuato che smentisce categoricamente le teorie sulla ‘fine della storia’ – che avevano segnato l’era post sovietica – e sminuisce notevolmente il ruolo degli Stati Uniti come unica potenza globale a cui fare riferimento e a cui rispondere.
“Servono strategie di lungo termine. Saranno il pragmatismo e il realismo a dover prevalere,” scrive un preoccupatissimo Principe Michele del Liechtenstein sul GIS Reports commentando il nuovo scenario geopolitico.
Meno preoccupati delle conseguenze di tale cambiamento appaiono, invece, quei Paesi che ritrovano margini di manovra inaspettati per tentare di liberarsi dalla morsa del granitico monopolio statunitense.
Tra questi, in una certa misura, c’è anche l’Arabia Saudita, che ha deciso, a due mesi dalla visita di Biden, di procedere comunque al taglio della produzione petrolifera, taglio confermato solo qualche giorno fa nonostante le pressioni statunitensi e che avrà ripercussioni notevoli sui prezzi dell’energia.
Ma non è finita qui. L’Arabia Saudita è, proprio insieme all’Iran, tra i nuovi Paesi che sono stati protagonisti dell’ampliamento dei BRICS il 24 agosto scorso. I margini di manovra di cui abbiamo parlato poc’anzi, insomma, si espandono ulteriormente, mentre il divario tra il regno saudita e gli Stati Uniti, per quanto non incolmabile, si fa decisamente più ampio.
È in questo contesto che va letta l’insistenza sempre più pressante di Washington su Riad per normalizzare i rapporti con Tel Aviv. Non si tratta solo di portare a casa una vittoria sul piano della politica estera per l’amministrazione di Biden, a un passo dalle elezioni, ma anche di un estremo tentativo di affermare, in modo netto, l’appartenenza dei sauditi al blocco occidentale e alla sua visione del mondo.
Possibili conseguenze della normalizzazione per i sauditi
Sicuramente, instaurare rapporti diplomatici con Israele avrebbe la conseguenza immediata di riabilitare la figura del principe Bin Salman a Washington e in altri circoli del blocco occidentale. Bisogna capire, però, se questo rientri nelle priorità del Regno saudita, nello scenario mutato che abbiamo descritto e, soprattutto, se il prezzo da pagare sarebbe pari o superiore ai benefici.
Nella regione mediorentale estremamente polarizzata che esisteva fino a qualche anno fa, il quadro era ben più “semplice” per quanto riguarda il ruolo di Israele. Tel Aviv si vedeva come un potenziale alleato dei membri del Gulf Cooperation Council in chiave anti-Tehran.
Ma i cambiamenti profondi di cui abbiamo parlato hanno ridefinito le priorità per molti e creato una nuova rete di alleanze e rapporti che cozzano con quella visione.
Bin Salman, inoltre, ha dimostrato agli Stati Uniti che la sua immagine si sta già “normalizzando” altrove. Come spiega Giorgio Cafiero sul The New Arab, “le visite di MbS a Francia, Grecia e Turchia, e il viaggio del presidente chinese Xi Jinping a Riad (…) dimostrano ampiamente questa tesi.”
D’altro canto, invece, un accordo di normalizzazione con Israele potrebbe portare a un confronto diretto con l’Iran, da sempre acerrimo nemico di Tel Aviv nella regione e sostenitore della causa palestinese. Riad ha dimostrato, aderendo all’accordo voluto dalla Cina, di aver scelto la via del dialogo e della diplomazia per ridurre la pericolosità della “minaccia iraniana”, e non sembra avere intenzione di riaprire focolai regionali ormai sopiti.
Senza dubbio, la firma di eventuali accordi comprometterebbe in modo forte anche l’immagine dell’Arabia Saudita in tutto il mondo arabo, fondamentalmente per due ordini di ragioni. Prima di tutto, perché fu proprio il regime saudita a farsi promotore dell’Iniziativa di Pace Araba.
In secondo luogo, perché il Paese è percepito come custode dell’identità sunnita, grazie alla presenza di moltissimi luoghi sacri all’Islam, primo tra tutti Al-Masjid Al-Haram, alla Mecca. Voltare le spalle alla Palestina sarebbe anche voltare le spalle alla lotta per Al-Masjid Al-Aqsa, e tutto ciò che rappresenta nel mondo arabo e nella Umma.
Questa preoccupazione viene presa in considerazione dal rapporto del Wall Street Journal, ma in modo alquanto superficiale: non basterebbe di certo una sorta di accordo con la sempre più compromessa ANP per attutire l’impatto simbolico e morale di una simile scelta, e Riad lo sa fin troppo bene.
Il punto è che, qualora vi fosse una forte volontà politica di normalizzare, i sauditi lo farebbero senza soffermarsi troppo su questo tipo di conseguenza, tanto più che non si tratta di un regime democratico in cui l’elemento del consenso è parte integrante delle scelte da attuare.
Gli altri Paesi arabi che hanno già normalizzato stanno proseguendo lungo quel tracciato, nonostante i giudizi fortissimi arrivati dal popolo, dalle piazze e, ove possibile, dalle urne. Nel caso del Marocco, ad esempio, i partiti che hanno partecipato a regolari elezioni hanno pagato uno scotto durissimo dopo l’accordo congiunto con Tel Aviv; ma anche in questo caso, la monarchia marocchina è esente dall’elemento del consenso e dunque tira dritto lungo la strada di una normalizzazione, anche militare, sempre più marcata.
L’Arabia Saudita è di fronte a un bivio: continuare a sostenere ufficialmente la lotta per l’indipendenza palestinese, non smettendo, però, di intessere una rete di rapporti ufficiosi con Tel Aviv, consentirebbe di proseguire lungo la rotta di una pacificazione regionale nell’ottica di un mondo multipolare; oppure, scegliere di seguire i dettami di Washington e porsi decisamente nel blocco occidentale, siglando un accordo di normalizzazione che non va affatto nel segno della stabilizzazione regionale, ma che porterebbe anzi a un acuirsi del conflitto regionale e a un ulteriore esacerbarmento delle tensioni interne in Palestina.
È impossibile prevedere quale sarà la prossima mossa di Riad. Tuttavia, la seconda scelta sembra un deciso passo indietro verso la strada dell’autonomia e dei più ampi spazi di manovra intrapresa dall’Arabia Saudita.
Una versione di questo articolo è apparsa originariamente su Contropiano.
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