By Ramzy Baroud
Provando ad annientare la volontà dei palestinesi attraverso torture, umiliazioni e stupri, Israele vuole ripristinare un diverso tipo di deterrenza, quella che ha perso il 7 ottobre.
Il 25 ottobre, il politico israeliano Moshe Feiglin ha dichiarato ad Arutz Sheva-Israel National News che “i musulmani non hanno più paura di noi”.
Potrebbe sembrare strano che Feiglin consideri l’elemento della paura come critico per il benessere di Israele, se non per la sua stessa sopravvivenza.
In realtà, l’elemento della paura è direttamente collegato al comportamento di Israele ed è centrale nella sua retorica politica.
Nel corso della storia, Israele ha compiuto massacri con una specifica strategia politica in mente: instillare la paura desiderata per allontanare i palestinesi dalla loro terra. Deir Yassin, Tantara e gli oltre 70 massacri documentati durante la Nakba, o Catastrofe palestinese, ne sono un esempio.
Anche in passato, Israele ha utilizzato la tortura, lo stupro e altre forme di violenza sessuale per ottenere informazioni o per piegare la volontà dei prigionieri.
In un rapporto pubblicato il 5 agosto, esperti affiliati alle Nazioni Unite hanno affermato che “queste pratiche hanno lo scopo di punire i palestinesi per aver resistito all’occupazione e cercano di distruggerli individualmente e collettivamente”.
La guerra in corso a Gaza, però, ha fatto sì che tutte queste orribili strategie si siano manifestate in modi mai visti in passato, sia in termini di diffusione che di frequenza.
In un rapporto intitolato “Welcome to Hell” (Benvenuti all’inferno), pubblicato il 5 agosto, il gruppo israeliano B’tselem ha affermato che le “strutture di detenzione israeliane, in cui ogni detenuto è deliberatamente sottoposto a dolore e sofferenza duri e implacabili, operano come campi di tortura de facto”.
Qualche giorno dopo, il gruppo palestinese Addameer ha pubblicato un altro rapporto, che “documenta casi di tortura, violenza sessuale e trattamenti degradanti”, oltre che “abusi sistematici e alle violazioni dei diritti umani commessi contro i detenuti di Gaza”.
Se gli episodi di stupro, aggressioni sessuali e altre forme di tortura fossero segnati su una mappa, coprirebbero una vasta area geografica, a Gaza, in Cisgiordania e nello stesso Israele – soprattutto nel tristemente noto campo di Sde Teiman.
Considerando le dimensioni dell’esercito israeliano, le prove ben documentate di stupri e torture dimostrano che tali tattiche non sono legate a un ramo specifico dell’esercito. In altri, termini, l’esercito israeliano utilizza la tortura come strategia centralizzata.
Tale strategia è stata associata a personaggi come Itamar Ben-Gvir, ministro israeliano della sicurezza nazionale. Le sue dichiarazioni aggressive, ad esempio quella secondo cui i prigionieri palestinesi dovrebbero essere “colpiti da un proiettile in testa invece di ricevere più cibo”, sono perfettamente in linea con le sue azioni, altrettanto violente: la prassi di affamare i detenuti, la normalizzazione della tortura e la difesa dello stupro.
Ma non è stato certo Ben-Gvir a istituire queste pratiche sinistre, che sussistono da decenni e sono state utilizzate contro generazioni di detenuti palestinesi, che si sono visti negare tutti i diritti sanciti dal diritto internazionale, in particolare dalla Quarta Convenzione di Ginevra.
Ma perché Israele tortura i palestinesi su così larga scala?
Le guerre israeliane contro i palestinesi si basano su due elementi: uno materiale e uno psicologico. Il primo si è manifestato nel genocidio in corso, nell’uccisione e nel ferimento di decine di migliaia di persone e nella quasi distruzione di Gaza.
Il fattore psicologico, invece, mira ad annientare la volontà del popolo palestinese.
Il gruppo Law for Palestine ha pubblicato un database di oltre 500 casi di leader israeliani, tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che incitano al genocidio a Gaza.
La maggior parte di questi riferimenti sembra essere incentrata sulla disumanizzazione dei palestinesi. Ad esempio, la dichiarazione dell’11 ottobre del presidente israeliano Yitzhak Herzog, secondo cui “non ci sono civili innocenti a Gaza”, faceva parte di quella sentenza di morte collettiva che, di fatto, ha reso lo sterminio dei palestinesi moralmente giustificabile agli occhi degli israeliani.
Anche l’inquietante riferimento biblico di Netanyahu, che ha invitato i soldati israeliani a vendicarsi dei palestinesi, affermando “Ricordate ciò che Amalek vi ha fatto”, è stato il segnale per avviare uno sterminio di massa.
Smettendo di considerare i palestinesi come esseri umani, innocenti, degni di vita e sicurezza, Israele ha concesso al suo esercito carta bianca per fare ciò che riteneva opportuno a questi, nelle parole del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, “animali umani”.
Le uccisioni di massa, la fame e i diffusi stupri e torture dei palestinesi sono il risultato naturale di questa sconvolgente dialettica.
Ma lo scopo generale di Israele non è semplicemente la vendetta, anche se quest’ultima è senz’altro importante per recuperare lo spirito della nazione in Israele.
Provando ad annientare la volontà dei palestinesi attraverso la tortura, l’umiliazione e lo stupro, Israele vuole ripristinare un diverso tipo di deterrenza, quella che ha perso il 7 ottobre.
Non riuscendo a ripristinare la deterrenza militare o strategica, Tel Aviv investe sulla deterrenza psicologica, cioè sul ripristino dell’elemento di paura che è il 7 ottobre del 2023 è stato violato.
Stuprare i detenuti, diffondere i video e compiere atti raccapriccianti: tutto fa parte della strategia israeliana, quella tesa a ripristinare la paura.
Israele, ad ogni modo, fallirà, semplicemente perché i palestinesi sono già riusciti nell’intento di neutralizzare la matrice stessa di 76 anni di dominio fisico e di tortura mentale da parte di Israele.
La guerra israeliana contro Gaza si è rivelata la più distruttiva e sanguinosa di tutte le guerre israeliane. Eppure, la resilienza dei palestinesi continua a rafforzarsi, perché non sono agenti passivi, ma partecipano attivamente alla definizione del proprio futuro.
Se la resistenza popolare è davvero il processo di rigenerazione del sé, i palestinesi di Gaza stanno dimostrando che, nonostante il dolore e l’agonia indicibili, stanno emergendo come un’entità collettiva, pronta a rivendicare la propria libertà, a qualunque costo.
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