By Ramzy Baroud
Le conseguenze sono essenzialmente politiche, con la separazione delle comunità palestinesi e l’isolamento completo di Gerusalemme che assicurerebbero una maggioranza demografica ebraica per le generazioni a venire.
Il governo israeliano ci riprova, discutendo attivamente della costruzione di migliaia di unità di insediamenti illegali come parte di un massiccio progetto di espansione degli insediamenti noto come Piano E1.
Sebbene l’impresa di insediamento israeliana nell’area di Gerusalemme Est sia stata, almeno apparentemente, sospesa per via delle pressioni internazionali, il governo israeliano ha trovato il modo di mantenere in vita il progetto. Lo ha fatto attraverso la costante espansione dei vari insediamenti in nome del “naturale sviluppo”, la confisca della terra palestinese e la spietata ma sistematica demolizione delle case palestinesi.
Ma perché gli Stati Uniti, principale difensore e benefattore di Israele, si oppongono, almeno verbalmente, allo sviluppo edilizio in zona E1, mentre chiudono un occhio sulla espansione illegale in tutta la Cisgiordania? La risposta sta nel fatto che il piano E1 amplierà ulteriormente i confini municipali di Gerusalemme, riducendo al minimo la presenza demografica palestinese nella città (dall’attuale 42% a circa il 20%) e pregiudicando qualsiasi soluzione politica che includa Gerusalemme Est.
Gerusalemme Est è una città palestinese, occupata da Israele dalla guerra del giugno 1967. È riconosciuta dalle Nazioni Unite e dal diritto internazionale come parte dei Territori Occupati. Israele non dovrebbe avere né diritti legali né giurisdizione su quel territorio.
Washington, che raramente pensa ai diritti dei palestinesi, è tuttavia preoccupata che, senza Gerusalemme Est come parte dell’equazione politica, qualsiasi discussione su una “soluzione a Due Stati” diventi per sempre obsoleta.
In altre parole, gli Stati Uniti sono più preoccupati per le conseguenze politiche, e non territoriali, della decisione israeliana. Infatti, l’intero programma politico americano in Palestina e Israele si colloca all’interno del modello della soluzione dei Due Stati. Senza di essa, il ruolo di Washington cesserebbe di servire a qualsiasi scopo.
Questo è il motivo per cui il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha criticato gli insediamenti israeliani durante il suo discorso all’AIPAC (Comitato Americano per gli Affari Pubblici in Israele) la scorsa settimana. Pur ostentando il solito degli Stati Uniti per la sicurezza di Israele, descrivendolo come “non negoziabile” e “definitivo”, ha anche messo in guardia contro “qualsiasi mossa verso l’annessione della Cisgiordania, interruzione dello status quo storico nei luoghi santi e le continue demolizioni di case”. Questi passi, e altri ancora, “danneggeranno le prospettive di una soluzione a Due Stati”, le fondamenta della politica estera statunitense in Medio Oriente.
Israele, d’altra parte, non è interessato a due Stati, né a uno Stato né a qualsiasi “soluzione” alla sua Occupazione militare e all’Apartheid in Palestina. Al contrario, Tel Aviv sta lavorando per un fine specifico: una formula di dominio permanente, che soddisfi la sua ricerca di “sicurezza”, superiorità demografica e “difendibilità” dei confini.
Poco importa che la visione di Israele dei propri confini sia ampiamente incoerente con il diritto internazionale. Tutto ciò che conta per l’attuale governo, anzi per tutti i governi israeliani, sono gli “interessi nazionali” della popolazione ebraica del Paese, il cui futuro è da sempre legato alla soppressione delle aspirazioni politiche e dei diritti civili degli abitanti nativi della Palestina.
Il significato particolare di Gerusalemme deriva da due fattori: la sua centralità storica, spirituale, economica e amministrativa per tutti i palestinesi e il fatto che è stata il Santo Graal del colonialismo israeliano in Palestina negli ultimi 75 anni.
Una rapida occhiata alla mappa di Gerusalemme Est è sufficiente per spiegare il movente di Israele nella città palestinese: più terra possibile a maggioranza ebraica assoluta. Perché ciò avvenga, molto lavoro deve essere fatto; vale a dire, garantire la continuità territoriale tra il massiccio insediamento ebraico illegale di Ma’ale Adumim e Gerusalemme.
Le motivazioni di Israele non sono un segreto. Un lungo rapporto del Centro Sionista di Gerusalemme per gli Affari Pubblici illustra in dettaglio gli obiettivi di Tel Aviv. Il rapporto mette in guardia dal consentire “la sicurezza e la discontinuità urbana tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, o il ritorno di Gerusalemme allo status di città di confine, che precluderebbe lo sviluppo verso Est della città”.
Il riferimento allo “sviluppo verso Est” è particolarmente pericoloso, poiché molti insediamenti ebraici illegali sono stati deliberatamente costruiti in varie parti della Cisgiordania, fino alla Valle del Giordano, al solo scopo di collegarli, dividendo così la Cisgiordania in due regioni principali, Sud e Nord.
Considerando l’attuale amministrazione e le divisioni di “sicurezza” della Cisgiordania, una divisione territoriale importante negherebbe ai palestinesi ogni senso di continuità fisica, per non parlare della statualità. In altre parole, l’Apartheid diventerebbe permanente e, dal punto di vista di Israele, sostenibile.
Per quanto riguarda l’espansione verso Ovest, collegare Ma’ale Adumim alla cosiddetta Gerusalemme metropolitana attraverso la costruzione in E1 aiuterebbe Israele a raggiungere una componente fondamentale della sua strategia espansionistica. Secondo il Centro Sionista di Gerusalemme, tale fusione “incorporerebbe sia l’insediamento che la sicurezza come due componenti vitali e complementari dell’interesse nazionale di Israele”.
E, ovunque ci sia costruzione israeliana nella Palestina occupata, c’è sempre la distruzione delle proprietà palestinesi e la confisca della terra.
Secondo l’Ufficio del Rappresentante dell’Unione Europea in Palestina, 28.208 unità di insediamenti illegali “sono state autorizzate” in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, nel 2022, rispetto alle 22.030 del 2021. Un numero ancora più elevato è previsto nel 2023.
Per quanto riguarda le demolizioni di case palestinesi, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari dipinge un quadro cupo. Solo nel primo trimestre del 2023, 290 strutture palestinesi in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, sono state demolite o sequestrate. Ciò rappresenta un aumento del 46% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Gerusalemme Est ha visto una parte importante di questa distruzione, in particolare 95 case e altre strutture tra il 1º gennaio e il 28 marzo, secondo il Consiglio Ecumenico Mondiale. Il risultato è stato lo sfollamento di 149 palestinesi, tra cui 88 bambini.
I grandi piani di Israele a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania non hanno solo un costo umanitario. Le conseguenze sono essenzialmente politiche, con la separazione delle comunità palestinesi e l’isolamento completo di Gerusalemme che assicurerebbero una maggioranza demografica ebraica per le generazioni a venire.
Sebbene Blinken cerchi di enfatizzare la minaccia di tali azioni alla soluzione dei Due Stati, il vero pericolo sta nel fatto che queste misure minacciano il tessuto stesso della società palestinese e il futuro politico del popolo palestinese.
La riattivazione del piano E1 da parte di Israele non richiede solo una semplice condanna, ma azioni concrete e decisive, soprattutto perché il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu è sempre più fuori controllo.
Leggi l’originale inglese qui.
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