‘Israele (non) è tornato in Africa’: i paesi africani contrastano le mira israeliane sul continente

La scena dell'ambasciatrice israeliana allontanata dal vertice dell'Unione Africana è di portata storica. (Immagine: PC)

By Ramzy Baroud

La scena dell’ambasciatrice israeliana Sharon Bar-Li, che il 18 febbraio viene scortata, insieme ad altri delegati israeliani, fuori dalla cerimonia di apertura del vertice dell’Unione africana ad Addis Abeba, in Etiopia, è stata di portata storica. Il momento che avrebbe dovuto coronare vent’anni di diplomazia israeliana nel continente africano si è trasformato, in pochi secondi nella rappresentazione del fallimento di Israele in Africa.

Incapace di comprendere il fallimento dei suoi sforzi diplomatici e politici, Tel Aviv ha risposto all’allontanamento di Bar-Li aprendo uno scontro verbale contro i paesi africani, accusandoli di guidare una campagna volta a bloccare lo status di osservatore di Israele.

Riferendosi a un “esiguo numero di stati estremisti come il Sudafrica e l’Algeria”, un portavoce del ministero degli Esteri israeliano ha alluso a un complotto, presumibilmente ordito dall’Iran, e portato avanti da governi africani che sarebbero “guidati dall’odio” per Israele.

La natura poco diplomatica del linguaggio impiegato dal ministero degli esteri israeliano va a segnare un cambiamento importante rispetto alla retorica ottimista e diplomatica usata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu quando si rivolse alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) durante la visita in Liberia, nel 2017.

“Israele sta tornando in Africa, e l’Africa sta tornando in Israele”, aveva detto Netanyahu, aggiungendo, con un linguaggio teatrale e ponendo grande enfasi su ogni sillaba, “Io credo nell’Africa”.

Il riferimento di Netanyahu al “ritorno in Africa” alludeva al ritorno concreto – diplomatico e politico – e al ritorno immaginario al continente come rappresentazione di un’esperienza storica condivisa.

In merito all’ultimo punto, Netanyahu aveva fatto vari riferimenti a una presunta lotta anticoloniale condivisa tra Israele e paesi africani. “Africa e Israele condividono un’affinità naturale”, aveva affermato Netanyahu nel suo discorso all’ECOWAS. “Abbiamo, per molti versi, storie simili. Le vostre nazioni hanno lottato contro dominazioni straniere. Hanno vissuto guerre e massacri orribili. Questa è anche la nostra storia”.

Il “ritorno” diplomatico, invece, è più reale che immaginario. Tuttavia, i rapporti diplomatici tra Israele e molti paesi africani, a partire da quelli con il Ghana nel 1956, sono caratterizzati da circostanze storiche uniche. Spesso si sono instaurati in periodi in cui i Paesi africani erano ancora sotto dominazione coloniale o in regime di semi-indipendenza. Ad esempio, le relazioni tra Ghana e Israele si sono avviate quando il Ghana si chiamava ancora Costa d’Oro. Gli accordi diplomatici con Tel Aviv avvennero solo quando la ‘Costa d’Oro’ ricevette l’approvazione ufficiale dalla Gran Bretagna, dal momento che il Paese era ancora una colonia britannica.

Prima del 1973, Israele aveva rapporti diplomatici pieni con 33 Paesi africani. Ma la situazione cambiò drasticamente nell’ottobre dello stesso anno. Mentre i Paesi arabi erano coinvolti in una guerra contro l’espansione coloniale israeliana, molti Paesi africani interruppero i legami con Israele in virtù dei loro autentici legami storici, economici e spirituali con i fratelli arabi. Non c’è da meravigliarsi che sia stata l’Organizzazione dell’Unità Africana – il precursore dell’Unione Africana – a identificare per prima l’ideologia fondante di Israele, il sionismo, come una forma di razzismo nella 12a sessione ordinaria tenutasi a Kampala nel 1975.

Il cosiddetto “processo di pace” e la firma degli Accordi di Oslo tra i leader palestinesi e Israele hanno verosimilmente indebolito la ferma posizione africana nei confronti della Palestina, non per inimicizia verso i palestinesi ma a causa delle pressioni occidentali e dell’idea, sbagliata, che pace e giustizia fossero finalmente arrivate nella Palestina occupata. È stato proprio in questo contesto che Netanyahu ha visitato l’Africa, avviando una campagna di normalizzazione con molti Paesi africani.

Gli obiettivi di Israele in Africa sono chiari: profitti economici e ritorno politico, in particolare con voti a favore di Israele alle Nazioni Unite. Anni dopo il “ritorno in Africa”, Tel Aviv non ha mantenuto le altisonanti promesse di rivitalizzare le economie locali e combattere la desertificazione; tantomeno l’Africa, come blocco, ha cambiato in modo significativo l’atteggiamento in favore dei diritti dei palestinesi all’ONU .

Tuttavia, per Netanyahu, valeva la pena continuare su quel solco, soprattutto perché Tel Aviv comprende appieno che l’Africa è tornata ad essere, come ai tempi della Conferenza di Berlino nel 1884, un importante spazio geopolitico conteso. Per questo l’episodio di Addis Abeba rappresenta un fallimento ancora più cocente per Israele.

Dopo l’allontanamento dei delegati israeliani, Tel Aviv ha continuato a ribadire solo gli aspetti più tecnici della vicenda, sostenendo che l’ambasciatrice fosse accredita, che Israele fosse ufficialmente un membro osservatore dell’UA e così via.

In realtà, lo status di osservatore di Israele ha causato una spaccatura tra i membri dell’UA. L’approvazione fu concessa unilateralmente dal Presidente della Commissione dell’UA, Moussa Faki Mahamat, nel luglio 2021. Quando si diffuse la notizia della decisione di Mahamat, presa a titolo personale, molti paesi protestarono vivamente e lo status fu sospeso, in attesa di una decisione basata su un più adeguato processo democratico.

Soli due giorni dopo l’allontanamento della delegazione israeliana, il 20 febbraio, l’UA – in realtà lo stesso Mahamat – ha annunciato ai giornalisti che lo status di Israele era “sospeso fino a successiva deliberazione della commissione”. Mahamat ha aggiunto che “nessuno aveva invitato i funzionari israeliani al vertice .”

La risposta di Tel Aviv ha palesato solo il generale senso di confusione, se non di disperazione, della diplomazia israeliana.

I Paesi africani, tuttavia, hanno attribuito all’incidente una chiara impostazione politica, affermando che la decisione di sospendere Israle non era meramente tecnica o procedurale. Anzi, nelle parole di Clayson Monyela, capo della diplomazia pubblica del Dipartimento per le relazioni internazionali del Sudafrica, si trattava di “una questione di principio”.

Tre settimane dopo la decisione dell’UA, il parlamento sudafricano ha votato a favore di una mozione che declassa l’ambasciata del Paese a Tel Aviv a mero ufficio di collegamento. Anche questa decisione è stata dettata da una questione di principio, come un “primo passo” che mira a fare pressione su Israele “affinché rispetti i diritti umani, riconosca i diritti del popolo palestinese (e) il suo diritto a esistere”.

Man mano che si aprono nuovi spazi geopolitici per i Paesi del Sud del mondo, a causa dei cambiamenti di potere sul piano globale –  sempre più Paesi osano sfidare l’egemonia delle ex potenze coloniali. Considerando la storia delle loro valorose lotte anticoloniali, non sorprende che i Paesi africani siano alla guida di questo slancio verso l’indipendenza nazionale e regionale.

In fondo, l’Africa ha impiegato solo sei anni per dimostrare che Netanyahu si sbagliava, che Israele “non è tornato in Africa”. In realtà, è il continente africano che sta tornando alle sue radici anticoloniali.

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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