‘L’America non è un Paese razzista’: Nikky Haley è la candidata di Israele alla Casa Bianca

Nikki Haley con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. (Photo: US Embassy Tel Aviv, via Wikimedia Commons)

By Ramzy Baroud

Sebbene si dica spesso che il cosiddetto sogno americano è morto da tempo, Nikki Haley è la prova che, in realtà, questo è ancora vivo. Peccato che il “sogno” sia solo il suo.

Parte integrante del cerchio magico dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del suo circolo filo-israeliano fino a pochissimo tempo fa, Haley aspira oggi a diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti. Il 14 febbraio, ha annunciato ufficialmente la sua candidatura e, a partire da febbraio del prossimo anno, sfiderà ufficialmente i suoi ex leader nelle primarie repubblicane.

È vero che attualmente la sua popolarità tra gli elettori del partito repubblicano si aggira intorno al 3-4 per cento, ma Haley pensa di poter vincere, giocando bene le sue carte. Sebbene militi in un partito che non sia particolarmente amante delle donne o delle minoranze, i traguardi raggiunti nel passato le danno fiducia nel futuro.

“Anche nel nostro giorno peggiore, siamo fortunati a vivere in America”, ha detto nel suo video di lancio della campagna elettorale. Sebbene sia un’affermazione tipica dei politici statunitensi in occasioni simili, la dichiarazione di Haley nasconde segnali preoccupanti.

Haley considera la sua stessa esistenza una prova dell’affermazione antistorica secondo cui “l’America non è un paese razzista”, uno slogan che le ha assicurato gli applausi scroscianti delle migliaia di sostenitori all’apertura della campagna elettorale il 15 febbraio scorso, a Charleston, nella Carolina del Sud.

Per i repubblicani, il profilo di Haley è importante perché diverso dal solito. Sanno benissimo che un candidato nero non otterrebbe un risultato esaltante tra i loro elettori. Tuttavia, hanno un disperato bisogno di presentare una “persona di colore” per fare leva sulle minoranze. Il profilo ideale è un candidato di colore che confermi le convinzioni della maggioranza dei Repubblicani: ovvero che l’America è un grande Paese libero dal razzismo e dalle disuguaglianze, con molti nemici pericolosi all’esterno, con Israele quale alleato più fidato. Haley, per anni, ha rivestito questo ruolo con entusiasmo.

“Ero la figlia orgogliosa di immigrati indiani. Non nera. Non bianca. Ero diversa “, ha dichiarato. Questa affermazione, apparentemente innocua, è stata il fulcro della carriera politica di Haley dal momento in cui, nel 2011, ha lasciato l’azienda di abbigliamento della sua famiglia per candidarsi come governatore in Carolina del Sud, riuscendo nell’impresa di vincere le elezioni.

Nel 2017, la parabola vincente di Haley è proseguita, quando è stata nominata ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Storicamente, questo ruolo ha avuto più rilevanza per gli interessi israeliani piuttosto che per quelli degli Stati Uniti, perché le Nazioni Unite sono tra i pochi organismi internazionali in cui i palestinesi e i loro sostenitori tentano, sebbene spesso invano, di attribuire a Israele le dovute responsabilità.

Per decenni, gli Stati Uniti si sono opposti a qualsiasi tentativo di punire Israele per la sua occupazione militare e le continue violazioni dei diritti umani in Palestina. Le decine di veti usati dagli Stati Uniti per bloccare qualsiasi condanna al colonialismo israeliano o ai crimini di guerra nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite rivelano solo parte della storia.

Nei suoi due anni di carriera diplomatica, in cui si è occupata principalmente di servire Israele, Haley ha contribuito al blocco del finanziamento statunitense all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA). Ha anche architettato l’uscita del suoi Paese dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNHRC), a causa delle critiche a Israele.

Le viene attribuito un ruolo centrale nella decisione che ha portato al brusco ritiro dal Piano d’azione congiunto globale, oltre che nel cosiddetto ‘accordo del secolo’, risultato poi in un’azione di mera retorica.

Oggi, Haley spera di incassare – letteralmente – il premio della sua dedizione a Israele e al ruolo di falco rispetto al Medio Oriente. Ricorda spesso ai suoi donatori, principalmente miliardari filo-israeliani, che lei ha mantenuto  tutte le promesse fatte a Israele in occasione della conferenza dell’AIPAC nel 2017. E questo è un dato innegabile.

Il suo intervento alla conferenza annuale del gruppo di lobby filo-israeliano “ha elettrizzato la folla”, secondo il Times of Israel. Nel suo discorso, Haley, galvanizata dalle standing ovation dei 18.000 partecipanti alla Conferenza AIPAC, e consapevole del possibile potenziale in termini di ritorno elettorale, dichiarò di essere il “nuovo sceriffo in città”, pronta ad assicurare che “i problemi di Israele alle Nazioni Unite sarebbero finiti”.

Lo ‘sceriffo’ ha senz’altro mantenuto la parola, inaugurando l’età d’oro di Israele alle Nazioni Unite e instaurando amicizie durature con funzionari e donatori israeliani.

Haley è diventata una “fonte di orgoglio per i falchi israeliani, grazie alla sua lotta contro le risoluzioni tese a colpire Israele”, secondo quanto scritto dal settimanale ebraico The Forward il 14 febbraio.

In particolare, un fotogramma di quattro secondi nel video di lancio della sua campagna elettorale è stato girato in Israele, accanto alla linea di demarcazione con la Striscia di Gaza. Accanto a lei, si vede l’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon. Mentre erano all’ONU, i due hanno sviluppato un “rapporto di lavoro unico – e un’amicizia duratura”, scrive il Frward citando Danon, attuale membro del partito Likud di Benjamin Netanyahu.

È degno di nota che l’ex ambasciatore israeliano abbia dichiarato che, se “Haley fosse candidata alla presidenza di Israele, vincerebbe agevolmente”. Considerando la sua scarsa performance tra gli elettori statunitensi, una domanda sorge spontanea: perché un candidato presidenziale americano dovrebbe essere molto più popolare tra gli israeliani che non tra gli americani?

La strategia di Haley, tuttavia, sta dando i suoi frutti, almeno da un punto di vista finanziario. Jacob Kornbluh ha analizzato le fonti di finanziamento del Super PAC di Haley. Gran parte dei 17 milioni di dollari raccolti nell’ultimo appuntamento elettorale provenivano da “importanti donatori ebrei”. Tra loro, Miriam Adelson – moglie del defunto magnate del casinò filo-israeliano Sheldon Adelson- Paul e Bernie Marcus, Daniel Loeb, e molti altri.

Può sembrare strano che tali fondi vengano investiti su un candidato che, almeno per ora, ha poche possibilità di vincere la nomination repubblicana, ma non si tratta di soldi sprecati. Tel Aviv sta semplicemente premiando i molti favori ricevuti da Haley, ben consapevole che, indipendentemente dal suo ruolo nel prossimo governo, Haley continuerà sempre a dare la priorità agli interessi di Israele ponendoli, se necessario, anche davanti a quelli del suo Paese.

- Ramzy Baroud is a journalist and the Editor of The Palestine Chronicle. He is the author of six books. His latest book, co-edited with Ilan Pappé, is “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. Dr. Baroud is a Non-resident Senior Research Fellow at the Center for Islam and Global Affairs (CIGA). His website is www.ramzybaroud.net

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