
By Dalia Ismail
La mozione unitaria sulla Palestina è importante sul piano simbolico, ma è accurata e sufficiente? Dalia Ismail la analizza punto per punto.
Per la prima volta dal 7 ottobre 2023, l’opposizione italiana si presenta compatta e unita sulla Palestina, sfidando apertamente il governo Meloni. Il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra hanno firmato una mozione unitaria che rappresenta – almeno sul piano simbolico – un passaggio politico rilevante: il tentativo di restituire centralità alla questione palestinese in un Parlamento complice.
Questa compattezza dell’opposizione è una notizia in sé. In mesi in cui il centro-sinistra si è mostrato timido, diviso o silente, la mozione rappresenta una rottura tanto nel metodo più che nei contenuti, che i singoli membri di questi partiti hanno più volte espresso sui social, in parlamento e nei talk show: si chiede il riconoscimento dello Stato di Palestina, il cessate il fuoco immediato a Gaza, la sospensione della vendita di armi a Israele, sanzioni al governo israeliano e l’applicazione del mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale. È un linguaggio deciso, netto, che chiama in causa direttamente il governo italiano.
Ma proprio qui si apre il terreno della critica. Perché se da un lato la mozione è simbolicamente coraggiosa, dall’altro solleva interrogativi sulla sua reale efficacia politica. Arriva tardi – dopo diciotto mesi di genocidio – e in un Parlamento dove le forze che la firmano non hanno i numeri per trasformarla in impegno vincolante per l’esecutivo. Ma soprattutto, è destinato ad essere un gesto isolato, più utile a rinsaldare l’identità dell’opposizione che a muovere davvero la politica estera italiana.
La vera novità di questa mozione è solo l’unità dell’opposizione. Ma l’entusiasmo per la ritrovata compattezza non deve farci perdere di vista il punto centrale: la mozione, nei contenuti, resta cauta, parziale e prigioniera di un linguaggio che non rompe realmente con la narrazione dominante.
Il testo evita accuratamente il termine “genocidio”, nonostante le evidenze, i rapporti delle Nazioni Unite e la pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia. Mantiene un tono estremamente misurato, attento a non urtare le istituzioni ufficiali della comunità ebraica, né le sensibilità filo-israeliane presenti anche all’interno di questi stessi partiti – in particolare nel Partito Democratico.
Pensare che, siccome la situazione a Gaza è tragica ed emergenziale, allora bisogni accontentarsi di qualsiasi proposta – anche quando questa contiene ambiguità politiche, affermazioni implicitamente islamofobe, rimozioni storiche e razzismi istituzionalizzati – è una posizione intellettualmente e politicamente miope. Questa mozione non è un “passo avanti” in sé, se non in termini di forma e tempismo: ha troppe criticità per essere esaltata senza essere analizzata a fondo.
La Palestina condizionata
La proposta di riconoscere lo Stato di Palestina, così com’è formulata nella mozione, appare più simbolica che concreta. A renderla irrealistica non è solo il contesto geopolitico, ma la totale assenza di una condizione fondamentale: lo smantellamento delle colonie israeliane illegali nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Il testo fa riferimento in modo generico ai “confini del 1967”, ma non impone esplicitamente ad Israele l’obbligo di ritirarsi dai territori occupati in quell’anno né menziona l’urgenza di smantellare l’infrastruttura coloniale che rende di fatto impossibile la nascita di uno Stato palestinese sovrano, contiguo e vitale.
È significativo che l’unico accenno al ritiro israeliano dalla Cisgiordania compaia solo alla fine della mozione, e non in relazione alla creazione dello Stato di Palestina. Questo disallineamento mostra chiaramente che non si intende legare direttamente il riconoscimento dello Stato palestinese alla decolonizzazione reale dei territori che ne costituirebbero la base territoriale.
Senza questa precondizione – senza un vincolo chiaro al ritiro delle forze di occupazione e allo smantellamento delle colonie – il riconoscimento resta un atto vuoto, un’affermazione di principio priva di strumenti, senza alcun meccanismo concreto di attuazione.
Ancora più problematico è il modo in cui viene presentata la creazione dello Stato di Palestina: condizionata fin da subito alla “sicurezza dello Stato di Israele” e alla fine di ogni forma di violenza e “terrorismo”. È evidente che quest’ultimo termine si riferisce alla parte palestinese, come da consueta narrazione imposta dall’Occidente dopo l’11 settembre 2001, che associa ogni forma di resistenza araba o musulmana al “terrorismo”. Così, anche all’interno di un testo che dovrebbe riconoscere il diritto di un popolo oppresso alla propria autodeterminazione, la popolazione palestinese viene implicitamente associata al terrorismo, mentre Israele – potenza occupante, che da un anno e mezzo devasta Gaza e Cisgiordania – è trattato in termini di “sicurezza” da garantirgli.
Questa impostazione neutralizza la responsabilità storica e politica di Israele nella mancata nascita dello Stato palestinese, e riproduce un’asimmetria narrativa profondamente ingiusta: pone sullo stesso piano l’occupante e l’occupato, l’aggressore e l’aggredito, come se si trattasse di due soggetti equivalenti da riconciliare.
Al contrario, non esisterebbe oggi nessun “problema palestinese” se non ci fosse stata l’occupazione, l’annessione, le espulsioni forzate e l’espansione coloniale israeliana. Le cautele, le ambiguità e le condizioni poste alla nascita dello Stato di Palestina, citando il comportamento delle vittime e non solo quello del carnefice, denunciano un riflesso profondamente razzista e un conformismo politico che si piega ancora una volta alla logica del potere internazionale, anche quando prova a sembrare coraggioso.
Un’umanità selettiva
Un’altra delle gravi ambiguità della mozione riguarda il modo in cui affronta la questione degli ostaggi. Si chiede la liberazione immediata e “incondizionata” degli ostaggi israeliani, ma non si fa menzione, neppure una volta, degli ostaggi palestinesi nelle carceri israeliane. Secondo l’ONG Addameer, si tratta di oltre 9.900 persone, tra cui minorenni, giornalisti, attivisti e 3498 detenuti amministrativi, imprigionati senza processo né accuse formali. Mentre gli ostaggi israeliani – quelli sopravvissuti – sono tornati in buone condizioni, in alcuni casi accompagnati persino dai propri cani, i detenuti palestinesi vengono regolarmente sottoposti a maltrattamenti, torture, negazione di cure mediche e detenzione in condizioni disumane. Alcuni muoiono per fame o torture. Ignorare tutto questo non è solo una rimozione politica: è una forma di razzismo istituzionale, che distingue implicitamente tra vite degne di essere difese e vite sacrificabili.
La stessa logica asimmetrica si ritrova nel passaggio sulla situazione in Libano. La mozione invita al rispetto della tregua e al contenimento delle tensioni al confine, ma omette completamente il fatto che è Israele, e non Hezbollah, a violare sistematicamente il cessate il fuoco. Dall’entrata in vigore della tregua, Israele ha colpito ripetutamente il Sud del Libano, bombardando villaggi e uccidendo civili, senza che ciò venga mai menzionato. Al contrario, il testo si preoccupa di “scongiurare futuri attacchi da parte di Hezbollah”, come se la minaccia al cessate il fuoco venisse da lì. È un linguaggio selettivo, distorto, che assolve chi ha il monopolio della violenza militare e continua a dipingere le forze arabe come un rischio da prevenire, piuttosto che come soggetti reattivi in un contesto di aggressione strutturale.
La negazione dell’autodeterminazione palestinese
Tra gli impegni promossi nella mozione, viene citato con favore il cosiddetto Piano Arabo per Gaza, ovvero una proposta sostenuta da diversi Stati arabi per la “ricostruzione e la futura amministrazione” della Striscia, con il coinvolgimento di attori della società civile palestinese e forze lontane da Hamas. Al di là della vaghezza formale del piano, il messaggio politico che sottintende è chiaro: Hamas non è un interlocutore legittimo, va rimosso e sostituito da un’amministrazione esterna, coordinata da potenze regionali e supervisionata dall’Occidente. Accogliere questo schema senza alcuna riserva significa aderire all’idea che il popolo palestinese non sia in grado di autogovernarsi.
Questa impostazione è estremamente problematica, non solo perché nega il principio di autodeterminazione, ma anche perché trasferisce a potenze arabe autocratiche – complici della normalizzazione con Israele – il compito di “riformare” Gaza. Il sostegno a questo piano implica un’accusa implicita ma netta: i palestinesi hanno sbagliato a votare Hamas, e per questo devono essere commissariati da attori esterni. È una logica coloniale travestita da diplomazia, che ignora il contesto di oppressione e occupazione in cui è nato Hamas, e tratta la resistenza come un ostacolo da eliminare, anziché un’espressione politica da comprendere e, eventualmente, superare con processi politici autentici e non imposti.
Sanzioni mirate e illusioni personalistiche
Un altro passaggio apparentemente forte della mozione riguarda la sospensione della vendita di armi a Israele e il sostegno all’adozione di sanzioni europee per le ripetute violazioni del diritto internazionale. Ma anche qui, l’enfasi posta sui singoli atti amministrativi o sulla responsabilità personale di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant maschera l’incapacità – o la mancanza di volontà – di chiamare in causa l’intero sistema coloniale israeliano.
Si parla di coloni, si parla di Cisgiordania, si condannano singole azioni, ma non si mette in discussione l’intera architettura dell’apartheid israeliana, neanche si menzionano altre figure politiche chiave nel genocidio come Ben Gvir o Herzog.
Sostenere i mandati di arresto della Corte Penale Internazionale è certamente importante, ma il modo in cui viene presentato nella mozione – come se bastasse colpire due leader per ristabilire la legalità internazionale – riflette una visione personalistica e depoliticizzata della questione. È l’illusione che punendo Netanyahu e Gallant si possa “risolvere” la questione, ignorando che l’occupazione, i bombardamenti, l’apartheid e l’impunità sono fenomeni sistemici, sostenuti da ampi settori dell’opinione pubblica israeliana, dall’esercito, dalla burocrazia, dalla lobby internazionale filo-israeliana, e da un assetto geopolitico che protegge Israele da ogni reale conseguenza.
Anche le misure sugli armamenti, per quanto necessarie, sono formulate in modo prudente: si parla di sospendere “ove in essere” le autorizzazioni di vendita di armi precedenti all’8 ottobre 2023, come se il problema riguardasse solo le armi in transito in questi mesi, e non una relazione militare e industriale strutturata da anni, che ha fatto dell’Italia uno dei partner principali di Israele nella produzione bellica. Ancora una volta, l’approccio è reattivo e non sistemico, ed evita di affrontare il nodo politico centrale: la complicità strutturale dell’Occidente nella violenza israeliana.
Perché solo ora?
Perché i partiti progressisti italiani hanno finalmente letto il termometro della piazza. Ora, le critiche dal basso, da attivisti, intellettuali, elettori e pezzi della società civile sono troppo forti per poter essere ignorate. Il fermento popolare ha reso insostenibile l’inazione: questa mozione nasce quindi più per rispondere a un’urgenza politica interna che per un reale cambio di paradigma verso la Palestina.
In aggiunta, sabato scorso c’è stato il grande corteo nazionale a Milano – oltre 50.000 persone secondo Il Manifesto. Infine, non va ignorato un altro elemento: il ritorno sulla scena internazionale di Donald Trump. Per le forze progressiste europee, Trump rappresenta una minaccia. Questo spinge molte forze di sinistra a ricollocarsi per timore di perdere terreno. Una mozione come questa serve allora anche a salvare la faccia, a segnare una distanza, e a posizionarsi in questo nuovo scenario geopolitico.

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